Ebbene sì, lo ammetto: stasera simpatizzerò più per l'Uruguay che per l'Olanda. Da amante del calcio non ci sarebbero dubbi: la Celeste mette in mostra un gioco ruvido e duro, contrapposto alla precisione degli Oranje. Tuttavia, le squadre sudamericane sanno sempre riscuotere simpatia. E poi da anni uno dei miei giocatori preferiti è Diego Forlán.
Per celebrare l'Uruguay in semifinale, ma anche per cercare di avvicinare al calcio chi non ama questo sport, propongo oggi un racconto di colui che è, forse, il più famoso scrittore uruguaiano: Eduardo Galeano. Il racconto s'intitola "L'arbitro" e fa parte della raccolta "Cuentos de fútbol", edita in Italia da Mondadori.
Piccolo suggerimento: leggetevi questo racconto ascoltando una canzone di Jorge Drexler, cantante uruguaiano reso celebre dalla colonna sonora de "I diari della motocicletta".
L'arbitro è arbitrario per definizione. È lui l'abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l'ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l'arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento e il rosso che lo condanna all'esilio.
I guardalinee, che aiutano ma non comandano, osservano da fuori. Solo l'arbitro entra nel campo di gioco e saggiamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità nel calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.
Nessuno corre più di lui. È l'unico obbligato a correre tutto il tempo. Tutto il tempo galoppa, sfiancandosi come un cavallo, questo intruso che ansima senza sosta tra i ventidue giocatori e, come ricompensa di questo sacrificio, la folla grida e chiede la sua testa. Dal principio alla fine di goni partita, in un mare di sudore, l'arbitro è obbligato a inseguire il pallone che va e viene tra i piedi altrui. E' evidente che gli piacerebbe giocare, ma questa grazia non gli è mai stata concessa. Quando la palla, per caso, colpisce il suo corpo, tutto il pubblico rivolge un ricordo a sua madre. Eppure, pur di stare lì, nel sacro spazio verde dove il pallone gira e vola, lui sopporta insulti, proteste, maledizioni e sassate.
A volte, rare volte, qualche decisione dell'arbitro coincide con la volontà del tifoso, ma neppure così riesce a provare la sua innocenza. Gli sconfitti perdono per colpa sua e i vincitori vincono malgrado lui. Alibi per tutti gli errori, spiegazione di tutte le disgrazie, i tifosi dovrebbero inventarlo se non esistesse. Quanto più lo odiano, tanto più hanno bisogno di lui.
Per più di un secolo l'arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E adesso lo nasconde con i colori.
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