domenica 22 febbraio 2015

La Guerra fredda e il "Miracolo sul ghiaccio"


Ebbene sì: per una volta ho scritto anche io di sport invernali, io che non sono un amante della montagna, io che non ho mai messo ai piedi un paio di sci, io che al massimo sono scivolato sulla neve con un innocuo padellino. 

Oggi (ri)propongo un pezzo sulla celebre partita di hockey su ghiaccio tra Stati Uniti e Unione Sovietica dei Giochi olimpici invernali del 1980, passata alla storia come il "Miracle on ice". 

L'articolo è stato scritto per l'ebook collettivo "La Russia di Sochi 2014", pubblicato un anno fa assieme all'amico-collega Nicola Sbetti ed è stato citato su The Post Internazionale e su Neve Italia: spero naturalmente che sia anche di vostro gradimento.

I giocatori della nazionale statunitense di hockey su ghiaccio si abbracciano sulla pista. Alzano le braccia al cielo, trionfanti, sotto gli occhi del pubblico ebbro di gioia. La copertina del primo numero di marzo 1980 della rivista “Sports Illustrated” è tutta qui: una foto nuda e cruda. Niente titoli od occhielli. Non ce n’è bisogno: tutta l’America sa.

14 febbraio 1980: nel giorno di San Valentino iniziano a Lake Placid, nello Stato di New York, i Giochi olimpici invernali. Gli sportivi americani avranno modo di innamorarsi della loro nazionale di hockey, attesa protagonista nel torneo assieme all’Urss.

La guerra fredda, intanto, s’incunea tra gli interstizi dei cinque cerchi olimpici: il presidente Usa Jimmy Carter ha gelato tutti minacciando il boicottaggio dei suoi atleti ai Giochi di Mosca, in calendario di lì a pochi mesi, se l’Urss non ritirerà le truppe che hanno invaso l’Afghanistan alla vigilia di Natale del 1979. Anche sulla pista ghiacciata, inizialmente, è guerra fredda: americani e sovietici non giocano nello stesso girone. Lo scontro diretto può ancora attendere.

Quella degli Usa è una squadra infarcita di imberbi studenti di college: a guidarli è Herbert Brooks, allenatore severo ed esigente reduce da vari trionfi con la University of Minnesota. Giovani, brillanti e motivati, incarnano alla perfezione l’immagine di un paese in difficoltà sullo scenario geopolitico ma con grandi ambizioni.

L’Urss, al contrario, dimostra che quella dell’Armata Invincibile non è mera retorica: i sovietici hanno vinto sei delle ultime sette edizioni del torneo olimpico, abdicando in favore degli Usa solo a Squaw Valley nel 1960. Brooks doveva far parte di quella squadra, ma fu depennato. Figurarsi se non brama di riprendersi il maltolto, pur in vesti diverse.

La marcia di avvicinamento dei padroni di casa al grande evento è lunga e faticosa: in cinque mesi Brooks fa disputare ai suoi ragazzi ben 61 incontri, il duro programma di allenamenti assomiglia a un addestramento militare. L’intelaiatura predisposta dal ct sovietico Viktor Tichonov non si discosta molto da quella che ha vinto l’oro quattro anni prima a Innsbruck. C’è Boris Michajlov, indomito capitano. C’è Valerij Charlamov, guizzante mancino. E c’è Vladislav Tret’jak, considerato il più forte portiere in circolazione.

Le amichevoli pre-olimpiche non fanno ben sperare. Per gli avversari, s’intende: le formazioni dell’Nhl, il campionato nazionale americano, vengono puntualmente annichilite e così pure la selezione che comprende i giocatori migliori. L’Urss pare avviata verso l’ennesimo trionfo.

Gli Stati Uniti iniziano con un pareggio da brividi: il 2-2 contro la Svezia si materializza solo nei secondi finali, con Brooks che rinuncia addirittura al portiere Jim Craig per fare spazio a un giocatore di movimento. Poi gli schemi, basati su un gioco arioso, sulla rapidità dei movimenti e su una fitta ragnatela di passaggi, iniziano a funzionare: le vittorie contro Cecoslovacchia (7-3), Norvegia (5-1), Romania (7-2) e Germania Ovest (4-2) valgono l’accesso al girone che assegna le medaglie.


I sovietici sono ancor più spietati: le goleade contro Giappone (16-0), Olanda (17-4) e Polonia (8-1) vengono parzialmente mitigate dalle vittorie più equilibrate contro Finlandia (4-2) e Canada (6-4). Stati Uniti e Unione Sovietica saranno finalmente avversari nel girone finale assieme a Svezia e Finlandia, con le squadre che ereditano i punteggi degli scontri diretti.

Alle cinque del pomeriggio del 22 febbraio va in scena la grande sfida, ormai non più riducibile al solo hockey su ghiaccio: è un duello tra nazioni, filosofie politiche e stili di vita antitetici. Dave Anderson, giornalista del New York Times, non trasuda ottimismo: “A meno che il ghiaccio non si sciolga e gli Usa non compiano un altro miracolo come nel 1960 a Squaw Valley, l’Urss vincerà facilmente la medaglia d’oro per la sesta volta negli ultimi sette tornei olimpici”.

Gli spalti del Field House, in grado di ospitare fino a 8,500 spettatori, sono pavesati di bandiere a stelle e strisce. Gli americani indossano maglia bianca e pantaloncini rossi, con la vistosa scritta USA sul petto, i rivali vestono la tradizionale divisa rossa su cui campeggiano le inconfondibili lettere CCCP. All’arbitro finlandese Kaisla l’onore, e l’onere, di dirigere l’incontro, trasmesso in diretta tv soltanto in Canada e in differita in prime time negli Usa. La telecronaca è affidata ad Al Michaels e all’ex portiere Ken Dryden, che il giorno prima ha passato l’esame per la pratica forense. Dischetto al centro. Si comincia.

Foto popsugar.com
Gli Stati Uniti ancora non si sono tolti il vizietto di regalare quasi sempre il vantaggio all’avversario. È il nono minuto quando Krutov, deviando con la stecca un tiro di Kasatonov, beffa Craig e sigla il vantaggio sovietico.

Le basse temperature del Field House schizzano cinque minuti dopo: Schneider, unico superstite della spedizione americana a Innsbruck, riceve da Pavelich e da posizione defilata fredda Tret’jak sul palo più lontano. Poi, a tre giri di lancette dalla conclusione del primo tempo, l’atmosfera si fa incandescente: Macharov infila in rete tutto solo davanti a Craig e, proprio a fil di sirena, una respinta difettosa di Tret’jak consente a Johnson di pareggiare.

Il gioco rimane sospeso, forse il pareggio americano è arrivato a tempo scaduto: le riprese televisive, però, confermano che il dischetto ha gonfiato la rete a un secondo dalla fine. Si va a riposo sul 2-2. Intanto, Tichonov sostituisce Tret’jak, apparsogli nervoso, e piazza Myškin tra i pali.

 Rinunciare al più forte portiere al mondo in una sfida decisiva per l’oro olimpico può equivalere a un suicidio tattico e più avanti Tichonov etichetterà la decisione come “il più grande errore della mia carriera”. Sul momento, però, nessuno se ne accorge: la retroguardia concede due soli tiri e Maltsov finalizza un micidiale contrattacco riportando in vantaggio l’Urss.

 La storia sembra già scritta, ma gli Stati Uniti vogliono redigerne un’altra versione. I ragazzi di Brooks si rimettono in carreggiata a metà del terzo e ultimo tempo, aiutati da una superiorità numerica: Johnson segna da distanza ravvicinata, sfruttando un’indecisione di Starikov sul filtrante di Silk.

Pochi secondi dopo, il colpo di scena: Pavelich gira il dischetto a Mike Eruzione, cognato del calciatore Giorgio Chinaglia. Eruzione e ghiaccio, ossimoro vincente: il capitano paisà, lasciato colpevolmente solo, sprigiona un tiro non angolato ma potente, Myškin ha la visuale ostruita e non riesce a neutralizzare. 4-3. I tifosi rumoreggiano. “U-S-A, U-S-A”.


I sovietici, anziché esibire la loro proverbiale freddezza, vanno nel panico. Tirano da ogni posizione, esaltando le doti di Craig che chiuderà l’incontro con ben 36 parate decisive. Il pubblico scandisce all’unisono i secondi finali mentre gli Usa escono dall’assedio avversario. Michaels si rivolge a Dryden: “Credi nei miracoli?”. Certo che ci crede, il suo collega come l’intera nazione.

I giornalisti coniano l’espressione “Miracolo sul ghiaccio”, mitizzano la sfida che diventa leggenda e fonte d’ispirazione per una pellicola disneyana. Il patriottismo americano che pareva assopito rivive, l’antipatia nei riguardi dei sovietici si esacerba. Pochi mesi dopo, gli Usa votano per il nuovo presidente e vince Ronald Reagan, colui che in barba a tanti negoziati definirà l’Urss “l’impero del male”.

Era di fatto caduto nell’oblio che la medaglia d’oro, e la fine dell’egemonia sovietica, fosse arrivata solo grazie al 4-2 in rimonta sulla Finlandia due giorni dopo: tutti ricordavano solo il “Miracolo sul ghiaccio”. L’America tornava a sognare.

3 commenti:

  1. complimenti davvero,articolo fatto benissimo

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  2. ho amato il film miracle ispirato a cio,e hai fatto un gran bel articolo

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