lunedì 25 luglio 2011

Il trionfo del "Fútbol criollo"



Photo futbolcallejero.blogspot.com

Ormai è una di quelle associazioni di idee che nascono da sole, senza arrovellarsi troppo il cervello: Uruguay, calcio, Eduardo Galeano. Adoro gli articoli che lo scrittore sudamericano ha dedicato a quello sport che lui stesso definisce "la vera religione in un paese ateo" come quello natìo. Adoro il fatto che lui, intellettuale, non abbia snobbato il calcio bensì lo abbia esaltato. Galeano stesso, va detto, non ha esitato ad evidenziare gli aspetti negativi, i precipizi in cui è rotolato il pallone, sul quale un numero purtroppo crescente di squali e avvoltoi lucra.


Proprio per questo, però, non si possono non apprezzare i suoi scritti che evocano gli anni pionieristici del fútbol, quello giocato a piedi nudi o con gli scarpini consumati nelle strade, quello giocato in luoghi dove le linee del campo e le porte vengono tracciati con sassi e mucchi di stracci o, meglio ancora, con la fantasia. L'Uruguay, la sua Uruguay ha appena vinto la Copa América, il più importante trofeo di calcio nel continente latinoamericano: lo ha alzato per la quindicesima volta verso il cielo, che ieri a Buenos Aires era bellissimo. Era celeste, come il colore della maglia indossata dalla nazionale allenata da Tabárez. 


Chissà se, adesso, Galeano farà scorrere qualche rivolo d'inchiostro per esaltare le figure di Luis Suárez, Diego Forlán, Diego Lugano e Sebastián "El loco" Abreu, dopo averlo già fatto per Obdulio Varela, Isabelino Gradín, Héctor Scarone, José Leandro Andrade e José Piendibene, l'attaccante che non esultava mai quando segnava per non mancare di rispetto agli avversari. 

Intanto godiamoci questo scritto che racconta la nascita del fútbol criollo, il "calcio creolo", in Argentina ed in Uruguay. E che sottolinea la trasformazione sociale del calcio stesso, da passatempo per pochi eletti a gioco che unisce etnie e popoli. E allora, viva la Celeste. Viva le partite in cui scende in campo, le sfide durante le quali "si ferma il respiro del Paese, tacciono i politici, i cantori e i ciarlatani da fiera, gli amanti frenano i loro amori e le mosche interrompono il volo".

L’Argentine Football Association non permetteva che si parlasse spagnolo nelle riunioni dei suoi dirigenti, e l’Uruguay Association Football League proibiva che le partite si giocassero di domenica, perché la tradizione inglese imponeva di giocare di sabato. Ma già nei primi anni del secolo il calcio cominciava a diffondersi e a stabilirsi sulle sponde del Rio de la Plata. Questo divertimento d’importazione che riempiva gli ozi dei ragazzi-bene era scappato dal suo elevato vaso da fiori, era sceso sulla terra e stava mettendo radici.

Fu un processo inarrestabile. Come il tango, il calcio crebbe partendo dalle periferie. Era uno sport che non esigeva danaro e si poteva giocare senza null’altro che la pura voglia. Nei recinti, nei vicoli e sulle spiagge, i ragazzi creoli e i giovani immigrati improvvisavano partite con palloni fatti di vecchie calzette riempite di pezza o di carta, e un paio di pietre per simulare la porta.

Grazie al linguaggio del calcio, che cominciava a farsi universale, i lavoratori espulsi dalle campagne si intendevano alla perfezione con i lavoratori espulsi dall’Europa. L’esperanto del pallone univa i poveri del posto con i braccianti che avevano attraversato il mare da Vigo, Lisbona, Napoli, Beirut o la Bessarabia che sognavano di fare l’America innalzando pareti, sollevando pesi, infornando pane o ripulendo strade. Gran bel viaggio aveva fatto il football. Era stato organizzato nelle scuole e nelle università inglesi, e in America del Sud rallegrava la vita di gente che non aveva mai messo piede in una scuola.

Negli stadi di Buenos Aires e di Montevideo stava nascendo uno stile. Una maniera particolare di giocare al calcio si stava imponendo, proprio mentre un ballo particolare si affermava nei patii dei milongueros. I ballerini disegnavano filigrane, avvinghiandosi su una sola mattonella, e i calciatori inventavano un loro linguaggio nel minuscolo spazio nel quale la palla non era calciata ma trattenuta e posseduta, come se i piedi fossero mani che intrecciavano il cuoio. E nei piedi dei primi virtuosi creoli nacque il toque: la palla suonata come fosse una chitarra, fonte di musica.

Simultaneamente, il calcio si tropicalizzava a Rio de Janeiro e San Paolo. Erano i poveri ad arricchirlo mentre lo espropriavano. Questo sport straniero diventava brasiliano man mano che smetteva di essere privilegio di pochi giovani benestanti che lo giocavano copiando, per essere fecondato dall’energia creatrice del popolo che lo scopriva. E così nasceva il calcio più bello del mondo, fatto di finte di corpo, andature oscillanti e voli di gambe che venivano dalla capoeira, la danza guerriera degli schiavi neri e degli allegri briganti dei sobborghi delle grandi città.

Il football stava diventando passione popolare e rivelava il segreto della sua bellezza, e allo stesso tempo si squalificava come passatempo raffinato. Nel 1915 la democratizzazione del calcio strappava qualche lamento alla rivista Sport di Rio de Janeiro: «Noi che abbiamo una posizione nella società siamo obbligati a giocare con un operaio, con un autista… La pratica dello sport sta diventando un supplizio, un sacrificio, giammai un divertimento». 

Fonti:
E. Galeano, "Splendori e miserie del gioco del calcio", Sperling & Kupfer, 2009


(Qui potete leggere alcuni scritti in lingua originale)

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