martedì 7 giugno 2011

Big in Japan - 1



Il recente trionfo della nazionale in Coppa d'Asia riporta un po' di attenzione sul calcio giapponese, noto ai più solo attraverso il mondo dei fumetti. Adesso, però, la J. League è una realtà consolidata, anche se il calcio ha faticato a farsi largo nella rigida società nipponica.

Detto in tutta franchezza: noi italiani nulla sapevamo del calcio giapponese, forse neppure della sua esistenza, fino a pochi anni fa. Di sicuro fino a quando, a metà degli anni Ottanta, non fece la sua comparsa sul piccolo schermo “Captain Tsubasa”, cartone animato meglio noto in Italia come “Holly e Benji”.

Solo allora, grazie alle improbabili gesta dei due eroi con gli occhi a mandorla, gli occidentali scoprirono che il pallone aveva fatto proseliti anche nell'Estremo Oriente. Non solo: migliaia di ragazzini iniziarono a cullare il sogno di diventare calciatori professionisti.

Merito (anche) del cartone animato che, con le celebri distorsioni del reale - campi da gioco dalle forme collinari, conclusioni a rete con parabole bizzarre, partite dalla durata infinita e trasmesse in diretta tv nazionale -, ebbe un forte impatto sulle generazioni degli anni Ottanta.

Oggi c'è chi lo considera, addirittura, un fattore che ha contribuito in maniera sensibile alla diffusione e allo sviluppo del calcio in Giappone, all’epoca ancora distante dal professionismo. Di sicuro ha avuto il merito di aprire gli occhi agli europei e di spalancare le porte della terra del Sol Levante alla curiosità degli stranieri.

Eppure la realtà non era esattamente quella che l’autore, Yoichi Takahashi, aveva disegnato nei suoi fumetti. 

Le origini. Destino comune ad innumerevoli altri paesi, il calcio viene importato in Giappone grazie agli inglesi: è il 1873 quando Sir Archibald Lucius Douglas, ufficiale della marina britannica nonché docente presso l'accademia navale di Tōkyō, inizia ad esibire le sue doti da palleggiatore durante le esercitazioni degli studenti.

Sebbene affascini per le analogie con il kemari, antico gioco nato all’interno dello shintoismo nel 600 d.C., il calcio inizialmente non attrae i giapponesi. Non quanto il baseball, i cui ruoli fissi ben si coniugano con la rigidità della struttura corporativa della società nipponica.

Un’altra chiave di lettura sta nella diversità di strategie militari adottate in Occidente ed in Oriente, come racconta Sebastian Moffett nel suo libro "Japanese rules": in Europa viene privilegiata la battaglia con l’uso di armi da fuoco tra gruppi contrapposti, simile quindi al calcio; in Giappone resistono, invece, gli antichi duelli tra guerrieri muniti di spada che ricordano quelli (a distanza) tra lanciatore e battitore, specie nel gesto atletico del secondo quando fa roteare la mazza.

Ed è singolare che questi sport approdino in Giappone proprio in coincidenza con il Periodo Meiji (1868-1912), epoca contrassegnata da riforme che coinvolgono l’istruzione, il sistema bancario e tributario e gli ormai vetusti caratteri feudali della struttura sociale. E che portano, soprattutto, ad un processo di industrializzazione e di “occidentalizzazione” del paese.

Un rinnovamento che proseguirà anche negli anni Venti e che si concretizzerà nella costruzione di nuovi impianti sportivi: si tratta del Koshien, uno stadio per baseball, calcio e perfino rugby nella regione del Kansai, e di una struttura all'aria aperta di Tōkyō, battezzata con il nome di "Santuario Meiji", destinata al calcio.

In questi anni vedono la luce le prime squadre calcistiche, che nascono in seno alle cosiddette “scuole normali”, sorta di istituti magistrali: alla nuova capitale Tōkyō, con i suoi quartieri Aoyama e Toshima, si aggiungono anche altri importanti centri nevralgici del paese quali Hiroshima, Kōbe, l'ex capitale Kyōto, Nagoya, Niigata, Saitama e Yokohama.

(1 - continua)

Fonti:
S. Moffett, "Japanese rules", Yellow Jersey Press, 2002

Nessun commento:

Posta un commento