I brasiliani lo adorano: il suo repertorio di assoli, quasi mai autoreferenziali, rimangono uno dei pochi barlumi di futebol bailado in una nazionale che ormai ha nel suo corredo i geni del calcio europeo. I tifosi avversari gli rinfacciano il look tra tamarro e cafonal con ciuffi sbarazzini e diamanti sui lobi, o le cadute accentuate nei contrasti.
Neymar è uno dei tanti fuoriclasse che divide la platea del grande show globale del calcio. Solo che s'appresta lui a divenire il più pagato di sempre: 222 milioni di euro. Follia, anche se da tempo il pallone s'è piegato alle logiche del turbocapitalismo. Ma - è il quesito con cui ci stiamo lambiccando il cervello da giorni - li vale davvero?
Neymar è l'ultimo baluardo della fantasia e dell'allegria tipiche di un calcio estensione dei passi di samba e capoeira. Deve tutto al padre, ieri giocatore professionista e oggi suo procuratore: la vita, ma anche l'amore per il pallone e perfino il nome, come suggerisce il "Neymar Jr" che campeggia sulle sue maglie da gioco.
Si è subito dovuto scontrare con pressioni e aspettative: a undici anni è entrato nel Santos, la squadra di Pelé, e figurarsi se non si sono scomodati i paragoni quando ha indossato la maglia col dieci - i tifosi lo avevano pure ribattezzato O Ney per l'assonanza con O Rei, soprannome di chi sapete voi (Pelé). S'innesca un meccanismo senza soluzione di continuità: gioca le prime partite in nazionale, firma lucrosi contratti di sponsorizzazione, sale pure sul palco a fianco del cantante Michel Teló e improvvisa un balletto sulle note del suo tormentone "Ai se eu te pego".
Neymar, lo avrete già intuito, non è più un semplice calciatore di belle speranze: è un brand. Un marchio aumentato di valore quando il Barcellona nel 2013 l'ha calato nel calcio che conta.
A proposito di controversie: era stata aperta addirittura un'inchiesta sulla reale cifra sborsata dai blaugrana al Santos e alla famiglia del campioncino, sfociata nelle dimissioni del presidente Sandro Rosell. Al Camp Nou, intanto, Neymar ha messo piede nello spogliatoio degli idoli d'infanzia: «Guardai da una parte: c'era Messi. Dall'altra Xavi, Iniesta, Piqué, Dani Alves. Un giorno li sceglievo ai videogame, quello dopo ero accanto a loro», ha raccontato. «Il primo mese fu molto complicato: parlare con Messi m'imbarazzava».
La timidezza è stata pian piano sopraffatta dalla bravura; ha imparato a stare a fianco di Messi e Suárez ed è diventato sempre più determinante con le sue giocate, vedasi la clamorosa rimonta in Champions League proprio contro il Paris Saint Germain degli sceicchi qatarioti.
Ma allora, perché andar via e farsi tacciare di tradimento? Neymar, che a 25 anni ha già segnato oltre 300 gol - né Messi né Ronaldo avevano osato tanto -, sa che per consacrarsi non può più permettersi il ruolo di comprimario: dev'essere lui quello da coccolare, quello che fa vendere più magliette. E a Parigi ci sono sì altri campioni, ma dal nome meno ingombrante. Ora o mai più.
Ah, non abbiamo ancora risposto: Neymar vale una spesa che risanerebbe il Terzo Mondo? C'è chi parla di rientro sicuro del capitale investito e di elevata potenzialità attrattiva. È tutto diventato un mostruoso gioco al rialzo, chissà per quanto ancora sostenibile: se il City sperpera 138 milioni per tre difensori normali, per assurdo i 222 per il brasiliano sembrano proporzionati. Paradossi di un calcio sempre più industria dell'entertainment all'incessante ricerca di star da vendere sul mercato. Star come Neymar.
(articolo pubblicato su Il Tirreno del 2 agosto 2017)
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