Cari internauti, per la prima volta vi parlerò di uno sport emozionante e spettacolare, ma ingiustamente bistrattato e poco pubblicizzato: la pallanuoto. Uno sport che ho praticato per svariati anni a livello agonistico e che continuo a praticare, seppur in ambito amatoriale, assieme ad un gruppo di vecchi amici e compagni di squadra. L'occasione mi giunge propizia dopo l'ennesima finale scudetto vinta dalla Pro Recco: ieri alla piscina di Punta Sant'Anna, qualche ora prima di un'altra - e ben più celebrata - finale, la blasonata squadra ligure ha conquistato il 23° scudetto della sua storia, sconfiggendo un Posillipo capace di tenere testa solamente nei primi due tempi. Finora il divario economico e, conseguentemente, tecnico che separa i recchelini dalle altre squadre italiane è evidente ed è destinato a crescere nei prossimi due anni: una prospettiva tutt'altro che rosea.
Non potrebbero essere più diverse, l'Inter e la Pro Recco. Non fosse altro che si parla di discipline totalmente differenti: da una parte si gioca su un manto erboso, dall'altra si scende in acqua. Ma due elementi accomunano meneghini e recchelini: i loro patron, Massimo Moratti e Gabriele Volpi, non hanno certo problemi economici (entrambi vantano interessi nel settore petrolifero) e, soprattutto, sono due squadre vincenti. Dal prossimo anno potrebbe esserci un terzo punto di condivisione: la massiccia presenza di atleti stranieri.
Della mancanza di giocatori italiani nell'Inter si è ampiamente disquisito negli anni precedenti e, in un certo senso, fa sorridere pensare che nelle ultime tre-quattro stagioni (demando al vostro libero arbitrio considerare valido oppure no lo scudetto assegnato ai nerazzurri dopo il terremoto Calciopoli...) il titolo di campione d'Italia sia andato ad una squadra che schiera uno o, nelle giornate di grazia, due giocatori del nostro paese nel suo undici titolare.
La situazione della Pro Recco, da anni regina indiscussa del massimo campionato di pallanuoto, è per certi versi analoga ma differente allo stesso tempo: qui le maggior finanze di cui dispone il patron Volpi consentono di accaparrarsi non solo i nazionali italiani di maggior spessore, come il portiere Tempesti, Felugo, Di Costanzo e Calcaterra, ma anche gli stranieri più forti. Fin troppi, forse: Tibor Benedek, Predrag Jokic, Tamas Kasas, Norbert Madaras, Tamas Marcz, Vanja Udovicic. Per provare a porre un freno a questa tendenza esterofila, la FIN aveva introdotto prima di questa stagione una nuova regola: limite di due stranieri per squadra, con la possibilità comunque di naturalizzarne altri. In quest'ultimo caso, se un giocatore straniero dovesse optare per la cittadinanza sportiva italiana, dovrebbe essere convocabile esclusivamente per il Settebello azzurro - dovranno tuttavia essere passati almeno 12 mesi dall'ultima apparizione con la propria (ex) nazionale di appartenenza - : la regola diventerà di fatto operativa a partire dal prossimo campionato, con ulteriore riduzione da due ad un solo straniero tesserabile per squadra. Inevitabile la corsa alla naturalizzazione di molti campioni stranieri ed il Recco non si è voluto smentire, assicurandosi per il prossimo anno un terzetto di giocatori di prima scelta: l'australiano Pietro Figlioli (nella foto a destra, di rientro dal prestito al Sori) ed i croati Buric e Premus. Senza poi dimenticare che, tra due anni, sarà possibile schierare anche lo spagnolo Guillermo Molina, da molti considerato il nuovo Estiarte.
Pensate ad una nazionale italiana composta da australiani, croati, serbi, spagnoli, ungheresi, tutti naturalizzati. Fortissima, non c'è dubbio, finanche imbattibile. Ma sareste disposti ad assistere ad un atleta che prende parte a due Olimpiadi (massimo traguardo per ciascun sportivo) sotto le bandiere di due paesi diversi? E badate che non è il caso di chi, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ha gareggiato prima per una delle due Germanie e poi per quella unificata, oppure per l'Unione Sovietica e, successivamente, per la Georgia, la Russia o l'Ucraina. E dove sta l'etica dei giocatori stessi, disposti addirittura a rinunciare a quello che dovrebbe essere il motore di tanto sforzo fisico - giocare per il proprio paese di appartenenza e rappresentarlo alle Olimpiadi - pur di piegarsi alle regole dei club e di vincere, nel migliore dei casi, l'Eurolega?
Appare fin troppo lampante come la mancata applicazione di questa regola, ma anche precedenti decisioni errate, abbia finito per sfavorire la scuola pallanotistica italiana: i talenti non trovano spazio perché si ritrovano chiusi dai giocatori stranieri. In Italia non c'è la pazienza di attendere che le giovani promesse fioriscano: è la stessa considerazione che Heidegger fece per descrivere l'attività del filosofo, paragonabile a quella di un giardiniere. Il quale non ha fretta, non vuole né può forzare i tempi. L'esatto contrario dell'operato di molti addetti ai lavori, poco avvezzi a puntare sui giovani o ad aspettare la definitiva esplosione di quest'ultimi: meglio fare affidamento su un giocatore pienamente formato e maturo, in grado di far compiere alla squadra l'agognato salto di qualità. Nella stragrande maggioranza dei casi, sono gli stranieri i primi a rispondere a tali requisiti: la loro presenza, inoltre, non fa che dare ulteriore lustro al nostro campionato.
Credo sia superfluo osservare come questa scelta provochi, tuttavia, un evidente effetto che si ritorce proprio contro coloro che la fanno propria. Il caso più eclatante riguarda gli Stati Uniti che - eccezion fatta per la nazionale femminile e per due argenti consecutivi alle Olimpiadi negli anni '80 - mai sono stati una potenza pallanotistica. Eppure negli ultimi anni gli americani sono cresciuti, raccogliendo il frutto del duro lavoro di Ratko Rudic: il secondo posto a Pechino, giunto esattamente venti anni dopo quello conquistato a Seul, lo testimonia alla perfezione. Ma, accanto all'operato del santone slavo, va annoverata la fuga degli atleti più promettenti verso l'Europa, e più precisamente in Italia, dove si gioca la vera pallanuoto: nel nostro paese sono transitati i vari Anthony Azevedo, Jeff Powers, Peter Varellas, Adam Wright. I quali non hanno fatto altro che imparare a giocare la vera pallanuoto, a crescere sul piano tecnico ed a carpire letteralmente i segreti del mestiere. I giocatori stranieri non hanno fatto altro che mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti: così nascono i grandi traguardi raggiunti dalla Grecia, quarta ai Giochi di Atene (mi si contesterà: giocavano in casa) e terza ai Mondiali di Montreal (e qui come la mettiamo?) sotto la guida di Alessandro Campagna. Degli Stati Uniti stessi. Ma è anche il caso di una nazionale piuttosto giovane quale il Montenegro, campione d'Europa un anno fa a Malaga, alla sua prima partecipazione: la squadra, è vero, già sulla carta si presentava molto competitiva perché la pallanuoto vanta una grande tradizione nella penisola balcanica. Al tempo stesso, però, non si può trascurare il fatto che i tre giocatori più rappresentativi militino nel nostro campionato, per giunta in due delle squadre più blasonate: Predrag Jokic nella Pro Recco, Nikola Janovic e Boris Zlokovic nel Posillipo.
Il risultato di questa scellerata politica è stato duplice: in primo luogo i giocatori stranieri hanno accresciuto in maniera esponenziale il proprio bagaglio tecnico grazie alla partecipazione nel campionato italiano; in secondo luogo le nuove leve della pallanuoto azzurra sono state letteralmente bruciate e molti giovani, al momento, non hanno accumulato sufficiente esperienza per poter essere risolutivi nelle competizioni più delicate. Non è un caso che, a pochi giorni dal suo insediamento, il neo ct azzurro Alessandro Campagna abbia convocato d'urgenza un collegiale riservato ai giovani Under 20, affinché il loro talento non venga sprecato come accaduto alle generazioni precedenti. Si è detto che l'ultimo, vero prodotto di primissima qualità della pallanuoto italiana sia stato Maurizio Felugo e che Valentino Gallo (nella foto a sinistra) sia stato tra i pochi della sua classe a salvarsi da questo triste destino. Se analizziamo la carriera del mancino siracusano, noteremo che già nel 2000, a soli quindici anni, orbitava attorno alla prima squadra dell'Ortigia. Un predestinato, forse. Ma i dirigenti biancoverdi non furono certo frenati dalla giovanissima età del loro giocatore e decisero, dunque, di dargli spazio e di farlo maturare.
Anche ieri il Posillipo ha gettato nella mischia alcuni elementi del suo vivaio, come Paride Saccoia e Dario Vasaturo, ed altri giovani di belle speranze quali Zeno Bertoli, Luca Fiorillo (figlio del grande Mario) e Fabio Gambacorta. Quella della società partenopea, tuttavia, è stata una scelta dettata dai problemi economici dei quali è stata investita, piuttosto che una politica volta a lanciare i giovani talenti. Tutte le società pallanotistiche, indipendentemente dallo stato in cui versano i loro bilanci, dovrebbero agire allo stesso modo. Ma la riprova (negativa) arriva proprio dalla Pro Recco campione d'Italia: si naturalizzano gli stranieri e si spediscono altrove i giovani (Lapenna e Washburn, entrambi ormai ventunenni) a farsi le ossa altrove. Non è certo in questo modo che si favorisce il ricambio generazionale nel Settebello, il cui ultimo risultato degno di nota - l'argento ai Mondiali di Barcellona nel 2003 - pare un ricordo sbiadito nel tempo.
Fonti:
http://www.waterpolonline.com/
Non potrebbero essere più diverse, l'Inter e la Pro Recco. Non fosse altro che si parla di discipline totalmente differenti: da una parte si gioca su un manto erboso, dall'altra si scende in acqua. Ma due elementi accomunano meneghini e recchelini: i loro patron, Massimo Moratti e Gabriele Volpi, non hanno certo problemi economici (entrambi vantano interessi nel settore petrolifero) e, soprattutto, sono due squadre vincenti. Dal prossimo anno potrebbe esserci un terzo punto di condivisione: la massiccia presenza di atleti stranieri.
Della mancanza di giocatori italiani nell'Inter si è ampiamente disquisito negli anni precedenti e, in un certo senso, fa sorridere pensare che nelle ultime tre-quattro stagioni (demando al vostro libero arbitrio considerare valido oppure no lo scudetto assegnato ai nerazzurri dopo il terremoto Calciopoli...) il titolo di campione d'Italia sia andato ad una squadra che schiera uno o, nelle giornate di grazia, due giocatori del nostro paese nel suo undici titolare.
La situazione della Pro Recco, da anni regina indiscussa del massimo campionato di pallanuoto, è per certi versi analoga ma differente allo stesso tempo: qui le maggior finanze di cui dispone il patron Volpi consentono di accaparrarsi non solo i nazionali italiani di maggior spessore, come il portiere Tempesti, Felugo, Di Costanzo e Calcaterra, ma anche gli stranieri più forti. Fin troppi, forse: Tibor Benedek, Predrag Jokic, Tamas Kasas, Norbert Madaras, Tamas Marcz, Vanja Udovicic. Per provare a porre un freno a questa tendenza esterofila, la FIN aveva introdotto prima di questa stagione una nuova regola: limite di due stranieri per squadra, con la possibilità comunque di naturalizzarne altri. In quest'ultimo caso, se un giocatore straniero dovesse optare per la cittadinanza sportiva italiana, dovrebbe essere convocabile esclusivamente per il Settebello azzurro - dovranno tuttavia essere passati almeno 12 mesi dall'ultima apparizione con la propria (ex) nazionale di appartenenza - : la regola diventerà di fatto operativa a partire dal prossimo campionato, con ulteriore riduzione da due ad un solo straniero tesserabile per squadra. Inevitabile la corsa alla naturalizzazione di molti campioni stranieri ed il Recco non si è voluto smentire, assicurandosi per il prossimo anno un terzetto di giocatori di prima scelta: l'australiano Pietro Figlioli (nella foto a destra, di rientro dal prestito al Sori) ed i croati Buric e Premus. Senza poi dimenticare che, tra due anni, sarà possibile schierare anche lo spagnolo Guillermo Molina, da molti considerato il nuovo Estiarte.
Pensate ad una nazionale italiana composta da australiani, croati, serbi, spagnoli, ungheresi, tutti naturalizzati. Fortissima, non c'è dubbio, finanche imbattibile. Ma sareste disposti ad assistere ad un atleta che prende parte a due Olimpiadi (massimo traguardo per ciascun sportivo) sotto le bandiere di due paesi diversi? E badate che non è il caso di chi, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ha gareggiato prima per una delle due Germanie e poi per quella unificata, oppure per l'Unione Sovietica e, successivamente, per la Georgia, la Russia o l'Ucraina. E dove sta l'etica dei giocatori stessi, disposti addirittura a rinunciare a quello che dovrebbe essere il motore di tanto sforzo fisico - giocare per il proprio paese di appartenenza e rappresentarlo alle Olimpiadi - pur di piegarsi alle regole dei club e di vincere, nel migliore dei casi, l'Eurolega?
Appare fin troppo lampante come la mancata applicazione di questa regola, ma anche precedenti decisioni errate, abbia finito per sfavorire la scuola pallanotistica italiana: i talenti non trovano spazio perché si ritrovano chiusi dai giocatori stranieri. In Italia non c'è la pazienza di attendere che le giovani promesse fioriscano: è la stessa considerazione che Heidegger fece per descrivere l'attività del filosofo, paragonabile a quella di un giardiniere. Il quale non ha fretta, non vuole né può forzare i tempi. L'esatto contrario dell'operato di molti addetti ai lavori, poco avvezzi a puntare sui giovani o ad aspettare la definitiva esplosione di quest'ultimi: meglio fare affidamento su un giocatore pienamente formato e maturo, in grado di far compiere alla squadra l'agognato salto di qualità. Nella stragrande maggioranza dei casi, sono gli stranieri i primi a rispondere a tali requisiti: la loro presenza, inoltre, non fa che dare ulteriore lustro al nostro campionato.
Credo sia superfluo osservare come questa scelta provochi, tuttavia, un evidente effetto che si ritorce proprio contro coloro che la fanno propria. Il caso più eclatante riguarda gli Stati Uniti che - eccezion fatta per la nazionale femminile e per due argenti consecutivi alle Olimpiadi negli anni '80 - mai sono stati una potenza pallanotistica. Eppure negli ultimi anni gli americani sono cresciuti, raccogliendo il frutto del duro lavoro di Ratko Rudic: il secondo posto a Pechino, giunto esattamente venti anni dopo quello conquistato a Seul, lo testimonia alla perfezione. Ma, accanto all'operato del santone slavo, va annoverata la fuga degli atleti più promettenti verso l'Europa, e più precisamente in Italia, dove si gioca la vera pallanuoto: nel nostro paese sono transitati i vari Anthony Azevedo, Jeff Powers, Peter Varellas, Adam Wright. I quali non hanno fatto altro che imparare a giocare la vera pallanuoto, a crescere sul piano tecnico ed a carpire letteralmente i segreti del mestiere. I giocatori stranieri non hanno fatto altro che mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti: così nascono i grandi traguardi raggiunti dalla Grecia, quarta ai Giochi di Atene (mi si contesterà: giocavano in casa) e terza ai Mondiali di Montreal (e qui come la mettiamo?) sotto la guida di Alessandro Campagna. Degli Stati Uniti stessi. Ma è anche il caso di una nazionale piuttosto giovane quale il Montenegro, campione d'Europa un anno fa a Malaga, alla sua prima partecipazione: la squadra, è vero, già sulla carta si presentava molto competitiva perché la pallanuoto vanta una grande tradizione nella penisola balcanica. Al tempo stesso, però, non si può trascurare il fatto che i tre giocatori più rappresentativi militino nel nostro campionato, per giunta in due delle squadre più blasonate: Predrag Jokic nella Pro Recco, Nikola Janovic e Boris Zlokovic nel Posillipo.
Il risultato di questa scellerata politica è stato duplice: in primo luogo i giocatori stranieri hanno accresciuto in maniera esponenziale il proprio bagaglio tecnico grazie alla partecipazione nel campionato italiano; in secondo luogo le nuove leve della pallanuoto azzurra sono state letteralmente bruciate e molti giovani, al momento, non hanno accumulato sufficiente esperienza per poter essere risolutivi nelle competizioni più delicate. Non è un caso che, a pochi giorni dal suo insediamento, il neo ct azzurro Alessandro Campagna abbia convocato d'urgenza un collegiale riservato ai giovani Under 20, affinché il loro talento non venga sprecato come accaduto alle generazioni precedenti. Si è detto che l'ultimo, vero prodotto di primissima qualità della pallanuoto italiana sia stato Maurizio Felugo e che Valentino Gallo (nella foto a sinistra) sia stato tra i pochi della sua classe a salvarsi da questo triste destino. Se analizziamo la carriera del mancino siracusano, noteremo che già nel 2000, a soli quindici anni, orbitava attorno alla prima squadra dell'Ortigia. Un predestinato, forse. Ma i dirigenti biancoverdi non furono certo frenati dalla giovanissima età del loro giocatore e decisero, dunque, di dargli spazio e di farlo maturare.
Anche ieri il Posillipo ha gettato nella mischia alcuni elementi del suo vivaio, come Paride Saccoia e Dario Vasaturo, ed altri giovani di belle speranze quali Zeno Bertoli, Luca Fiorillo (figlio del grande Mario) e Fabio Gambacorta. Quella della società partenopea, tuttavia, è stata una scelta dettata dai problemi economici dei quali è stata investita, piuttosto che una politica volta a lanciare i giovani talenti. Tutte le società pallanotistiche, indipendentemente dallo stato in cui versano i loro bilanci, dovrebbero agire allo stesso modo. Ma la riprova (negativa) arriva proprio dalla Pro Recco campione d'Italia: si naturalizzano gli stranieri e si spediscono altrove i giovani (Lapenna e Washburn, entrambi ormai ventunenni) a farsi le ossa altrove. Non è certo in questo modo che si favorisce il ricambio generazionale nel Settebello, il cui ultimo risultato degno di nota - l'argento ai Mondiali di Barcellona nel 2003 - pare un ricordo sbiadito nel tempo.
Fonti:
http://www.waterpolonline.com/
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