L’Ungheria sta alla
pallanuoto come il Brasile sta al calcio. Un’equazione che nessuno oserebbe mai
tentare di confutare dando una sbirciata ai trofei vinti e, in particolare, ai
titoli olimpici dei magiari (nove) e a quelli mondiali dei sudamericani (cinque).
E se provassimo a invertire gli sport? Gli ungheresi conobbero il loro momento
di gloria negli anni Cinquanta con la leggendaria Aranycsapat di Puskás, Kocsis, Czibor e Hidegkuti. Il Brasile,
invece, nella pallanuoto è sempre rimasto intrappolato in una sorta di limbo:
troppo forte rispetto alle altre nazionali dell’America Latina, troppo debole
per insidiare le corazzate europee. Soprattutto, detiene un poco invidiabile
primato: a tutt’oggi è l’unica squadra ad essere stata squalificata dal torneo
olimpico di pallanuoto.
Saltate le successive due
edizioni, il Brasile si ripresenta a Los Angeles nel 1932. È un’Olimpiade
partita sotto i peggiori auspici, martoriata dalla Grande depressione: sono
appena 37 i Paesi partecipanti e alcuni, come Haiti, Egitto e Uruguay, mandano
appena un atleta in rappresentanza dell’intera nazione.
Nella pallanuoto, uno
dei pochissimi sport di squadra a non essere stato depennato dal programma
ufficiale, le difficoltà sono ancor più evidenti: cinque nazionali e basta. E
menomale che ci sono Germania e Ungheria, finaliste quattro anni prima ad
Amsterdam, ad affiancare gli Stati Uniti padroni di casa, il Giappone e il
Brasile stesso e a rendere accettabile il livello tecnico della competizione.
I brasiliani si presentano
a Los Angeles al termine di un’inenarrabile odissea durata sei settimane. Il
governo è in bancarotta e i 69 atleti e atlete che gareggeranno sono costretti
a imbarcare a bordo della nave Itaquicê migliaia e migliaia di confezioni di
caffè - un carico da 25 tonnellate - per venderle lungo la rotta per la
California e finanziare così il viaggio.
Ma gli affari non vanno a gonfie vele.
Anzi: quando arrivano al Canale di Panama, i brasiliani non hanno soldi neppure
per pagare il pedaggio. E a nulla vale l’ingenuo stratagemma di tirar fuori i
cannoni per spacciare l’Itaquicê come imbarcazione militare e avere così libero
accesso nelle acque centramericane. Il capitano della nave avvisa via radio il
Banco do Brasil e dopo qualche giorno arriva un quantitativo di denaro
sufficiente per giungere a destinazione.
Quando attraccano nel
porto di Los Angeles, però, gli sventurati viaggiatori hanno racimolato appena
24 dollari. E il dipartimento d’immigrazione chiede una gabella di un dollaro
per ciascun atleta a bordo dell’Itaquicê. I tentativi di arrivare alla cifra
necessaria tramite il consolato brasiliano a San Francisco naufragano
miseramente e così, sul ponte della nave, è il momento delle scelte: solo 24
atleti, quelli che possono ambire a una medaglia o a un buon piazzamento,
scenderanno a terra e parteciparanno ai Giochi. Un terzo di questa fortunata
delegazione è formata dai giocatori della nazionale di pallanuoto.
Nessuno di loro, però,
salirà sul podio. E i pallanotisti faranno ancora peggio. Debuttano contro gli
Stati Uniti e rimediano subito un pesante 6-1: i brasiliani sembrano giocare un
altro sport, ignari delle modifiche al regolamento adottate negli anni
addietro. Nulla, però, lascia presagire ciò che accadrà nell’incontro
successivo contro la Germania campione in carica.
In acqua il divario è
abissale, i tedeschi al termine del primo tempo - l’attuale suddivisione in
quattro quarti arriverà solamente nel 1960 - sono già in vantaggio per 4-1.
L’arbitro è Béla Komjádi, commissario tecnico della nazionale ungherese e
considerato uno dei migliori allenatori della sua epoca, che sanziona con
qualcosa come una quarantina di falli il gioco aggressivo dei brasiliani. Che
covano rabbia e risentimento mentre la partita prosegue. E così, dopo il fischio
finale che sancisce la vittoria della Germania per 7-3, i sudamericani prendono
immediatamente di mira l’illustre direttore di gara, capro espiatorio della
sconfitta.
Dagli insulti e dalle
urla si passa ben presto alle vie di fatto. Il portiere Luiz Henrique Da Silva,
un pennellone alto quasi due metri, è tra i più inferociti e tutta la squadra
esce dalla vasca per inseguire e aggredire Komjádi. Si rende necessario
addirittura l’intervento della polizia per far desistere i brasiliani da
portare a compimento l’insano proposito. “L’intera squadra venne fuori
dall’acqua”, ricorderà anni dopo il giocatore americano Calvert Strong. “Lo
circondarono, ci fu qualche dopo e 2-3 persone furono spinte in acqua. Divenne
un caso sui giornali, ma in realtà non lo era”.
Il malcapitato direttore
di gara, che morirà prematuramente di lì a qualche mese dopo aver regalato
all’Ungheria il primo oro olimpico, lì per lì scherza sull’accaduto: “Mi sa che
non conosco le regole brasiliane”, commenta strizzando l’occhio. Lo stesso
occhio che, invece, la commissione tecnica del torneo deciderà di non chiudere
sulla pessima condotta dei sudamericani, squalificati ed estromessi dal resto
della competizione: non era mai accaduto prima.
E quegli istanti di follia fanno
ancor oggi del Brasile l’unica nazionale a ricevere una squalifica nella storia
della pallanuoto olimpica. Un’onta che la squadra oggi allenata dal santone Ratko Rudić proverà a far dimenticare tra meno di un mese a
Rio de Janeiro, a 32 anni di distanza dall’ultima apparizione.
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