Se si parla di atleti
paralimpici, il primo nome a solleticare la mente è di sicuro Oscar Pistorius.
Che, al di là della vicenda giudiziaria che lo vede protagonista in negativo, è
salito agli onori delle cronache per aver gareggiato contro quattrocentometristi
normodotati ai Giochi di Londra. Assai prima di lui, però, un altro amputato
aveva compiuto un’impresa simile. Di più: Olivér Halassy ha vinto medaglie
d’oro nella pallanuoto quando le Paraolimpiadi avevano ancora da venire.
La sfortuna infierisce su
Halassy, nato in realtà con il cognome Haltmayer, già in tenera età: nato nel
1909 a Budapest, a otto anni rimane coinvolto in un brutto incidente stradale.
Perde parte della gamba sotto il ginocchio sinistro, non la voglia e la forza
di andare avanti cimentandosi nello sport. Il giovane Olivér rimane affascinato
dalla pallanuoto e si affilia all’Újpest, polisportiva dell’omonima
circoscrizione della capitale ungherese dove è nato.
È il primo atto di un’accesa rivalità che non si spegne nelle successive due edizioni: l’Ungheria vince entrambi i tornei proprio a discapito dei tedeschi e il successo del 1936 è ancor più carico di significati, con due pallanotisti ebrei che trionfano in una Berlino pavesata di simboli nazisti. Halassy è un elemento irrinunciabile di quello zoccolo duro tirato su da Béla Komjádi, uno degli allenatori più innovativi e vincenti nella storia della pallanuoto: pur giocando a centrovasca non fa mancare il suo contributo in fase realizzativa. “È stato il più grande che io abbia mai affrontato”, rivelerà in seguito lo statunitense Frank Graham dopo aver giocato contro di lui ai Giochi del 1932.
Ma non c’è solo la
pallanuoto nel destino di Halassy, pure campione europeo per tre volte e
vincitore di dieci scudetti negli anni Trenta: primeggia anche nel nuoto, dove
totalizza 25 titoli nazionali in varie distanze. E mette al collo una medaglia
d’oro ai campionati europei del 1931: qua vince la finale dei 1500 stile libero
e quella del torneo di pallanuoto nello stesso giorno, prendendosi giusto un
paio d’ore per rifiatare.
(Articolo pubblicato su "Il Tirreno" dell'8 agosto 2016)
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