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Oggi un'altra eminenza grigia del nostro secolo ci ha lasciato. Ci ha lasciato colui che proprio alla parola "secolo" deve buona parte della sua popolarità: parlo di Eric Hobsbawm, lo storico e scrittore britannico morto oggi all'età di 85 anni. È stato autore di opere che oggi costituiscono i pilastri della storiografia, tra cui, appunto, "Il secolo breve".
È stato anche, nel non troppo lontano 1991, vincitore ‘Premio Internazionale Viareggio-Versilia’, riconoscimento assegnato all'interno del Premio Letterario Viareggio Rèpaci “ad una personalità di fama mondiale che abbia speso la vita per la cultura, l’intesa tra i popoli, il progresso sociale, la pace”.
E, in una prefazione all'edizione tedesca di "Nazioni e nazionalismi", ha persino trattato il calcio in relazione al fenomeno della globalizzazione e al tema dell'identità nazionale: proprio con quest'ultimo scritto, pubblicato all'interno del saggio "La fine dello stato" e citato in questo vecchio articolo del Corriere della Sera, intendo ricordare su 'Storie (stra)ordinarie di sport' la figura di Hobsbawm e quel secolo breve che ha avuto il calcio e tante altre discipline come indiscussi protagonisti.
La dialettica delle relazioni tra globalizzazione, identità nazionale e xenofobia emerge in modo drammaticamente chiaro in quell'attività pubblica che vede coinvolti tutti e tre questi elementi: il calcio. Grazie alla mondovisione, infatti, questo sport popolare universale si è trasformato in un complesso capitalistico industriale mondiale (anche se, in confronto ad altre attività economiche globali, di dimensioni relativamente modeste). Come è stato giustamente detto: 'Divisi tra il sentimento nazionale, l'ultimo rifugio delle emozioni del vecchio mondo, e l'elemento transnazionale, trampolino di lancio del nuovo mondo, i tifosi del calcio e tutti coloro che gravitano attorno a questo sport soffrono di una vera e propria schizofrenia, estremamente complessa [...] che illustra alla perfezione l'ambivalenza del mondo in cui tutti noi viviamo'.
Quasi fin dal giorno in cui ha conquistato un pubblico di massa, questo sport è stato il catalizzatore di due forme di identificazione di gruppo- quella locale (con le diverse società calcistiche) e quella nazionale (con la squadra nazionale, formata da giocatori delle varie società). In passato, queste due forme di identificazione erano complementari, ma la trasformazione del calcio in un affare globale e, soprattutto, l'emergere estremamente rapido di un mercato globale dei calciatori negli anni Ottanta e Novanta (specialmente dopo la sentenza Bosman della Corte europea di giustizia, nel 1995) ha reso sempre più incompatibili gli interessi nazionali e gli affari globalizzati, la politica, l'economia e il sentimento popolare.
Sostanzialmente, l'affare globale del calcio è dominato dall'imperialismo di poche imprese capitaliste di fama mondiale: un piccolo numero di supersocietà basate in un gruppetto di Paesi europei che competono le une contro le altre sia nei campionati nazionali, sia (e preferibilmente) in quelli internazionali. Le loro squadre sono reclutate a livello transnazionale. Spesso solo una minoranza - talvolta una piccola minoranza - dei loro calciatori sono nati nel Paese dove ha sede la società. A partire dagli anni Ottanta, esse hanno ingaggiato un numero sempre più alto di giocatori non-europei, specialmente africani (3000 dei quali, stando a quel che sidce, giocavano nei campionati europei nel 2002).
Questo sviluppo ha avuto un triplice effetto. Per quanto riguarda le società, esso ha pesantemente indebolito la posizione di tutte quelle che non fanno parte del gruppo delle superleghe e non partecipano alle supersfide internazionali, ma soprattutto di quelle che hanno sede in Paesi che esportano un gran numero di calciatori, principalmente nelle Americhe e in Africa (un fatto reso evidente dalla crisi delle società calcistiche del Brasile e dell'Argentina, un tempo molto forti). In Europa, i club più piccoli resistono alla sfida dei giganti in gran parte acquistando giocatori a buon mercato - principianti stranieri di talento, per esempio - nella speranza di rivendere in seguito le stelle così scoperte ai superclub. I giovani della Namibia giocano in Bulgaria, quelli della Nigeria in Lussemburgo e in Polonia, quelli del Sudan in Ungheria, quelli dello Zimbabwe in Polonia.
Il secondo effetto di questa logica transnazionale dell'impresa economica è entrato in conflitto con il calcio visto come un'espressione dell'identità nazionale, sia perché essa tende a favorire le sfide internazionale tra supersocietà rispetto alle coppe e ai campionati nazionali tradizionali, sia perché gli interessi delle supersocietà sono in competizione con quelli delle nazionali, che portano sulle loro spalle tutto il peso politico ed emotivo dell'identità nazionale, ma che devono essere reclutate scegliendo tra calciatori che abbiano il passaporto di Stato richiesto. A differenza dei superclub, che di fatto possono talvolta essere più forti delle loro rispettive nazionali, queste ultime cambiano in continuazione, radunando temporaneamente i calciatori, molti - o in casi estremi, come quello del Brasile, la maggioranza - dei quali giocano in qualche squadra estera che perde soldi per ogni loro giorno di assenza durante i periodi minimi necessari per allenarsi e giocare assieme ai loro compagni nella nazionale.
Dal punto di vista delle supersocietà e dei loro supercalciatori, le società stesse tendono ad essere più importanti dei Paesi. Tuttavia, gli imperativi non-economici dell'identità nazionale sono stati sufficientemente forti da imporsi nel gioco; anzi, di fatto sono stati abbastanza forti da fare della sfida tra le nazionali di calcio, i Mondiali, il singolo evento più importante nella sfera economica globale el calcio. In effetti, per diversi dei Paesi africani e alcuni di quelli asiatici, i cui giocatori sono ora diventati famosi (e ricchi) nei club maggiori, l'esistenza di una rappresentativa nazionale ha stabilito, in certi casi per la prima volta, un'identità nazionale separata dalle identità locali, tribali o confessionali. E questo perché "la comunità immaginaria di milioni di persone sembra più reale quando assume la forma di una squadra di undici uomini con nome e cognome". Di fatto, il recente rigurgito di nazionalismo degli inglesi ha trovato la sua prima espressione pubblica nell'esibizione, da parte delle masse, della bandiera della nazionale di calcio inglese (distina da quelle della Scozia, del Galles e dell'Irlanda del Nord).
Il terzo effetto può essere visto nel crescente rilievo dei comportamenti razzisti e xenofobi tra i tifosi (che sono prevalentemente di sesso maschile), soprattutto dei Paesi con un passato imperiale. Questi tifosi sono lacerati tra l'orgoglio per i loro superclub o le loro nazionali (che includono calciatori stranieri o di colore) e la crescente importanza, sul loro palcoscenico nazionale, di giocatori che provengono da popoli che finora consideravano come inferiori. I periodi scoppi di razzismo negli stadi di Paesi in precedenza non ritenuti razzisti - come la Spagna e i Paesi Bassi - e il legame tra il fenomeno degli hooligans e le forze politiche di estrema destra sono espressioni di queste tensioni.
Fonti:
Eric J. Hobsbawm, La fine dello Stato, cap. 1, pp. 36-41, Rizzoli, 2007.
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