giovedì 12 luglio 2018

Cosa ci ha lasciato Francia 98



Le coppiette che si sbaciucchiavano e si giuravano amore eterno sulle struggenti note di “My heart will go on”, meglio se accompagnate da un ballo lento. I pomeriggi interminabili a consumare i videogiochi di calcio con “Song 2” dei Blur e “Tubthumping” dei Chumbawamba in sottofondo - tanto avete già capito dove voglio andare a parare. Le ragazzine che si strappavano i capelli per Nick Carter dei Backstreet Boys. Il brit pop ormai sdoganato a tutti gli effetti, le All Saints e le B*Witched che provano a scalzare le Spice Girls. Le calde, per non dire afose, sere d’estate con l’immancabile gelato in mano ma non il cellulare, ché all’epoca non era ancora un bene di consumo di massa.

Eh no, caro Platini: la storia del “piccolo imbroglio” nei sorteggi del Mondiale del 1998 non può cancellare i ricordi di noi trenta-e-qualcosa-enni che all’epoca eravamo degli ingenui adolescenti sognatori. E soprattutto, così a posteriori, non può rientrare nel lascito di un torneo che è stato la perfetta transizione dal calcio degli anni Novanta a quello “moderno” dai più vituperato -  ma che, cari seguaci della nostalgia, è germogliato proprio nel periodo storico che tanto rimpiangete.

Più siamo, meglio è
Partiamo dai numeri: come hanno scritto Nicola Sbetti e Riccardo Brizzi nel loro recentissimo (e consigliatissimo) “Storia della Coppa del Mondo di calcio”, l’edizione che si svolse in Francia “fu televisivamente la più vista nella storia del calcio, trasmessa in 196 Paesi per un tempo complessivo di 29.145 ore di programmazione con 13mila giornalisti accreditati, 3mila in più rispetto al 1994”.

E ancora: “I biglietti fruttarono al comitato organizzatore la cifra record di 423 miliardi”. Te credo: furono i primi Mondiali a 32 squadre, il massimo raggiunto dalla Fifa prima dell’ulteriore ampliamento a 48 messo ai voti un paio d’anni fa.

Una mossa tipica dell’allora presidente della FIFA, l’ex pallanotista brasiliano João Havelange, che mirava allo sfruttamento del potenziale economico e commerciale dei Mondiali ed estendere la partecipazione soprattutto ai Paesi non europei (fece il suo debutto il Giappone, per dirne una).

Non a caso, osservano ancora Sbetti e Brizzi, nel 1998 le nazioni (e le nazionali) del Vecchio Continente erano meno della metà del totale delle partecipanti. Più squadre, più partite, più gol. Più spettacolo. Sicuri? Qualità e quantità fanno rima, ma raramente vanno a braccetto. Anzi, spesso sono legate da una relazione di proporzionalità inversa. Ma alla Fifa, a quanto pare, poco importa.


Globalizzazione + commercializzazione
Ben appunto: il massimo organo calcistico mondiale aveva intuito che aria tirava e l’avvicendamento, nei mesi successivi, tra Havelange e lo svizzero Sepp Blatter al comando dell’impero fu una logica conseguenza. Sempre meno eurocentrico, sempre più globale. Del resto, a partire da Francia ’98 tutte le edizioni dei Mondiali hanno fatto registrare audience cumulative superiori ai 25 miliardi di telespettatori. E quella di venti anni fa ebbe un straordinario successo in termini di marketing: 728 miliardi di lire, cento in più rispetto a Usa ‘94, come ci dicono Sbetti e Brizzi.

“Tutti volevano la finale tra Francia e Brasile”, ha aggiunto Platini nella sua recente dichiarazione. Tra questi c’erano sicuramente due colossi dell’abbigliamento sportivo come Adidas e Nike che per la prima volta si ritrovarono a duellare nell’atto conclusivo dell’evento calcistico per antonomasia.

Oltretutto, le stelle più attese erano Zinedine Zidane con le sue Predator Accelerator, caratterizzate da un’allacciatura asimmetrica, e Ronaldo che invece sfoggiava le sgargianti Mercurial argentate e azzurre. Secondo la vulgata, sarebbe stata proprio l’azienda americana a imporre la presenza in campo dal primo minuto di un Ronaldo colpito da convulsioni nelle ore precedenti la finalissima.

Europa vs. Resto del Mondo
Oddio, questo forse non è uno dei ricordi più illustri di venti (ventuno, per la precisione) anni fa. Però è rimasto a modo suo unico e irripetibile e probabilmente non verrà più replicato. Il 4 dicembre del 1997 il sorteggio dei gironi eliminatori — quello truccato, a detta di Platini — si svolse eccezionalmente all’aperto, allo stadio Vélodrome di Marsiglia, con un gustoso antipasto: una sfida tra Europa (in maglia bianca) e Resto del Mondo (in maglia azzurra).

Così, a memoria, ricordo benissimo che… i non europei segnarono qualcosa come cinque o sei gol; là davanti Batistuta e Ronaldo s’intendevano che era una delizia per gli esteti del calcio; l’Italia fu rappresentata da Costacurta; l’Europa andò in vantaggio con il rumeno Lăcătuș del quale venne però messa in dubbio la convocazione al Mondiale (ci andrà regolarmente: i soliti giornalisti…).

Segnò il colombiano Antony de Ávila detto Pitufo (“Puffo”) per via del suo misero un metro e 60 di altezza; la stampa -  non solo quella italiana, da sempre incline a soprannomi roboanti e dall’involontario effetto comico  -  ebbe l’ardire di ribattezzare l’attaccante giamaicano Deon Burton il “Ronaldo dei Caraibi”.


Scommettiamo che…
A quei tempi le schedine del Totocalcio — e, in misura minore, del Totogol — rimanevano uno dei passatempi preferiti dagli avventori di tabacchini e ricevitorie. Ma a fine anni Novanta chi tentava la fortuna con i pronostici sulle partite di calcio trovò un nuovo e forse più redditizio strumento: le scommesse “a quota fissa”.

Il 2 giugno, poco più di una settimana prima del calcio d’inizio tra Brasile e Scozia allo stadio di Saint Denis, fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Ministeriale 174 che sarebbe entrato in vigore diciotto giorni dopo. Fu una svolta storica: prima di allora, in Italia, le scommesse sportive erano ammesse esclusivamente sulle corse dei cavalli.

Il Mondiale di Francia ’98, seppur dai quarti di finale in poi, divenne così il primo evento calcistico nel nostro Paese su cui poter effettuare legalmente delle puntate in denaro e solo all’interno di agenzie specializzate.

Piccola curiosità: pochi mesi prima la Snai aveva lanciato un esperimento in occasione del torneo internazionale di calcio giovanile di Viareggio, anche quello allargato a 32 squadre. Con la non sottile differenza che sulle partite delle squadre Primavera si potevano scommettere e vincere crediti virtuali. Tipo i fantamilioni, insomma.

Maledizioni azzurre
Il 1998 fu, con gran sollievo di noialtri italiani, l‘ultima stagione della trilogia del malocchio dei rigori per l’Italia, almeno ai Mondiali (bofonchierete: grazie assai, nel 2010 e nel 2014 siamo stati eliminati ai gironi e quest’anno manco ci siamo…).

Ma la sfortuna non finiva qui: Peruzzi rimediò uno stiramento durante il ritiro e venne sostituito da Toldo - che indossò il numero 1 sulla schiena - con Pagliuca promosso a titolare e all’ultimo minuto rinunciò pure Ravanelli, rimpiazzato da Chiesa che nelle foto ufficiali e nei poster distribuiti dalla Ip figurava con la maglia numero 23 (all’epoca non consentito dalla Fifa), ereditando poi il 20 dall’attaccante del Marsiglia.

Analogamente, due anni dopo, Buffon si fece male in un’amichevole tra Italia e Norvegia e concluse l’Europeo in Belgio e Olanda ancor prima che iniziasse. Scongiurati, invece, i forfait di Zambrotta in Germania nel 2006 (c’era Bonera in lista d’attesa), di Pirlo in Sudafrica quattro anni dopo (lo avrebbe sostituito Cossu) e infine di Sirigu (Mirante era già volato in Brasile), Barzagli e Paletta (uno dei due avrebbe eventualmente ceduto il posto a Ranocchia).


Maglie e magliette
Sempre in tema di azzurri: il Mondiale francese è stato l’ultimo nel quale sulle divise da gioco indossate dai calciatori italiani non compariva il logo dello sponsor tecnico.

E il 12 luglio, in corrispondenza della sopraccitata finale tra Francia e Brasile, abbiamo visto per l’ultima volta i mitici numeri “tridimensionali” serigrafati sulla parte posteriore delle casacche: introdotti nel 1982 sulle maglie dell’Italia che poi alzò nel cielo di Madrid la sua terza Coppa del Mondo, Adidas li ripropose sedici anni dopo per le proprie nazionali (beh, quasi tutte: la Spagna, destinata ancora per poco a recitare il ruolo di eterna incompiuta, presentò un font diverso).

Tra le divise più meritevoli di quell’edizione, invece, non si può certo dimenticare quella ideata da Asics per il Giappone con l’immagine stilizzata di una fiamma sulle spalle. O la maglia da portiere della Giamaica, che sulla parte superiore aveva in bell’evidenza nientemeno che due foglie di marijuana. E soprattutto quella, stupenda, del Messico con i minuziosi disegni del calendario azteco.

Balcaniadi
Stoichkov e Stojkovic, Suker e Mijatovic, Hagi e Popescu, Boban e Savicevic, Prosinecki e Stankovic, e potremmo andare avanti per giorni, settimane, mesi. Con il crollo del Muro di Berlino e del comunismo, al di là della cortina di ferro si chiuse un’epoca anche calcisticamente parlando: i giovani calciatori slavi, rumeni e bulgari potevano lasciare il loro paese senza aspettare il compimento dei 28 anni e accasarsi dove meglio credevano.

Se il primo Mondiale degli anni Novanta coincise con il canto del cigno di una Jugoslavia che scricchiolava sempre di più e di un’Unione Sovietica ormai defunta, l’ultimo si è invece caratterizzato per la massiccia presenza di nazionali provenienti dai Balcani (ben quattro: Bulgaria, Croazia, Serbia-Montenegro e Romania).

Anzi: non fu forse un caso che l’apice -  mica vi sarete dimenticati che i croati arrivarono terzi, mettendo addirittura paura alla Francia in semifinale… -  sia stato toccato con l’ultima nidiata di calciatori tirata su negli anni del “protezionismo” imposto dai comunisti. Difficilmente rivedremo una così alta concentrazione di talento, e soprattutto di genio e sregolatezza, sul proscenio prestigioso di una Coppa del Mondo.


Liberté, egalité, diversité (macché)
Una nazionale multietnica che porta per la prima volta la Francia sul tetto del mondo all’antivigilia delle celebrazioni per l’anniversario della presa della Bastiglia. Un sincronismo perfetto. La rosa dei ventidue bleus entrati nella storia  -  laddove Platini, Giresse e Tigana non erano riusciti a spingersi -  fu uno spaccato dell’intera storia coloniale francese tra Algeria, Guadalupa, Guyana, Martinica e Senegal.

Non che fosse una novità in senso assoluto: già in passato erano stati convocati in nazionale figli di emigrati o calciatori nati fuori del territorio francese, includendo anche i possedimenti d’oltremare. Solo che nessuno era stato capace di mettere le mani sul trofeo che ogni bambino sogna di alzare quando comincia a dare calci a un pallone.

Dopo la doppietta di testa di Zidane (toh, un originario del Maghreb) e il sigillo finale di Petit, un intero Paese scese per strada  - i soliti Sbetti e Brizzi osservano che fu quello anche il primo Mondiale delle piazze, con mega-schermi allestiti nelle grandi città transalpine -  e scoprì che la diversità poteva essere una ricchezza.

“È stato necessario il Mondiale per ritrovare l’atmosfera della Liberazione”, fu il commento de Le Figaro. Fu una mera illusione, come di lì a pochi anni avrebbe testimoniato la sommossa nelle banlieue di Parigi, Marsiglia, Nizza e altre città, anche se la nazionale continua a essere multicolore.

La partita della distensione
Il 21 giugno non fu solo il solstizio d’estate: allo stadio Gerland di Lione si giocò un match magari poco attraente sul piano squisitamente tecnico, ma ricco di fascino per le sue implicazioni storiche e politiche.

Chissà se “il piccolo imbroglio” a cui ha fatto riferimento Platini valeva pure per il Girone F: dall’urna di Marsiglia uscirono i nomi di Stati Uniti e Iran. Che proprio nei mesi precedenti il Mondiale stavano faticosamente ricominciando a tessere le loro relazioni diplomatiche dopo venti anni di schermaglie (eufemismo: nell’immaginario collettivo iraniano gli Usa erano il “Grande Satana”).

Prima del fischio d’inizio dello svizzero Urs Meier (e chi meglio di un arbitro proveniente da un Paese da sempre neutrale?) i calciatori di entrambe le squadre posano per una fotografia questa sì davvero segnante, abbracciandosi tutti assieme. A pochi minuti dall’intervallo l’iraniano Estili raccoglie uno spiovente dalla destra e gira di testa la sfera sul secondo palo, inarrivabile per il portiere avversario Keller. Nel finale del secondo tempo Mahdavikia capitalizza al meglio un contropiede da manuale e tre minuti dopo McBride rimette in corsa gli Usa, sfruttando un’amnesia difensiva sugli sviluppi di una palla inattiva.

Per le strade di Teheran, pochi mesi dopo la vittoria nello spareggio contro l’Australia per la qualificazione ai Mondiali, è festa. E poco importa se l’Iran verrà eliminato dalla fase a gironi: l’impresa rimarrà.

(articolo originariamente pubblicato su Crampi Sportivi)

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