venerdì 9 ottobre 2015

USA-Messico, rivalità di frontiera



L'hanno già definito, forse con un pizzico di esagerazione, "the most important non-World Cup match in ages" nella storia della rivalità tra Stati Uniti e Messico. Ed effettivamente l'incrocio di sabato prossimo, per quanto privo del pathos suscitato da una partita ai Mondiali, non è minimamente assimilabile a una semplice amichevole. Perché sul prato del "Rose Bowl" di Pasadena le nazionali dei due Paesi confinanti duelleranno per afferrare la CONCACAF Cup e qualificarsi per la Confederations Cup che fungerà da prodromo ai Mondiali in Russia. Sarà la sessantaseiesima volta che statunitensi e messicani si sfideranno correndo dietro un pallone da calcio. E il clima sarà particolarmente torrido: si giocherà in California, in passato contesa tra i due Paesi, sotto gli occhi di oltre 90mila tifosi e l'ex calciatore Landon Donovan ha pubblicamente chiesto la testa del ct Jürgen Klinsmann in caso di sconfitta.

Dimenticatevi la finissima sabbia delle spiagge caraibiche, le impervie foreste canadesi, le monumentali piramidi Maya negli staterelli stretti nella morsa tra i due grandi continenti: nel calcio la geografia dell'America settentrionale e centrale è (quasi esclusivamente) un affare tra Stati Uniti e Messico.

 Impietoso lo spaccato offerto dall'albo d'oro della Gold Cup, il corrispondente centronordamericano degli Europei: dal 1991 a oggi solo loro hanno alzato il trofeo - unica eccezione il Canada che quindici anni fa, in maniera del tutto effimera, ha interrotto il duopolio - e per ben cinque volte sono arrivati a scontrarsi in finale. E la rivalità calcistica, a ben pensarci, riflette anche in ambito sportivo le complicate relazioni diplomatiche. Tutta colpa di quella linea - nemmeno troppo sottile - lunga 1.954 miglia che separa due mondi così attigui eppure profondamente disuguali.

Quando le nazionali di Stati Uniti e Messico si danno battaglia per la prima volta nel 1934 sono già trascorsi quasi cento anni dalla guerra nelle terre di frontiera. Tutto parte dal Texas: a seguito dell'indipendenza dalla Spagna le istituzioni messicane vogliono farne un cuscinetto per proteggersi da eventuali invasioni dal nord e spronano numerosi concittadini - ma anche migranti statunitensi - a insediarsi nella regione. Di fronte all'instaurazione di una dittatura, ad alcune restrizioni e alle promesse disattese dal governo centrale, però, la popolazione insorge. E dichiara nel marzo del 1836 l'indipendenza dal Messico proclamando la Repubblica del Texas.


Il regime militare di Città del Messico, che vede lesi i diritti accampati sull'area, minaccia un intervento militare in caso di annessione agli Stati Uniti. È la miccia che farà scoppiare la guerra tra i due Paesi: il presidente americano James Knox Polk provoca i dirimpettai rivendicando i territori del Texas che arrivano fino al Rio Grande - per i messicani è il Rio Nueces il confine naturale - e invia nel luglio 1845 alcune truppe sul luogo della disputa. I tentativi di negoziati naufragano anche a causa dell'instabilità politica in Messico dove si registrano innumerevoli avvicendamenti alla guida del governo e dei dicasteri più delicati. Ma l'autentico casus belli è l'annessione del Texas agli Stati Uniti, invocata dai coloni americani e votata favorevolmente dal senato a Washington, che diventa effettiva nel febbraio seguente.

I messicani, in piena collera, mantengono fede alle promesse. O meglio, alle minacce: il 25 aprile 1846 una cavalleria di duemila soldati entra nei territori contesi e apre il fuoco uccidendo alcuni militari americani. Quella che sotto il Rio Grande viene chiamata "guerra di difesa" e dal Texas in su "invasione" dura un paio d'anni: si concluderà con un'umiliazione per il Messico. Che, a seguito della stipula del Trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848, è costretto a cedere due milioni e mezzo di chilometri quadrati di territorio - California, Arizona, Nuovo Mexico, Utah, Nevada e parti di Colorado, Wyoming, Kansas e Oklahoma - agli Stati Uniti. Cinque anni dopo la definizione dei confini viene completata con l'Acquisto Gadsden o Trattato de La Mesilla.

L'ascesa al potere del generale Porfirio Díaz - sì, quello a cui è stata attribuita la frase "¡Pobre México! Tan lejos de Dios y tan cerca de los Estados Unidos"... - nel 1876 favorisce il disgelo tra i due Paesi, al punto da incoraggiare gli investimenti di dollari nelle terre al di là del Rio Grande. Ma le relazioni tornano a farsi turbolente negli anni Venti e Trenta sotto la presidenza dei generali rivoluzionari Plutarco Elías Calles e Lázaro Cárdenas del Río. E la tensione rimane alta per la contesa sul Chamizal, un'area di 600 acri compresa tra El Paso e Ciudad Juárez.
Foto ussoccer.com

Fortuna che in un clima così incandescente il primo scontro su un campo di pallone, e non di battaglia, avviene a migliaia di chilometri di distanza. Il 24 maggio 1934 Stati Uniti e Messico calpestano l'erba dello Stadio Nazionale di Roma: è uno spareggio per decretare chi tra le due parteciperà ai Mondiali. Il centravanti americano Aldo Donelli, paisà della Pennsylvania, è un' iradiddio e scaraventa la palla in rete quattro volte. Gli USA trionfano 4-2 e accedono alla fase finale: è una vittoria memorabile per gli yankees. E tale rimarrà a lungo, diciamo per quasi mezzo secolo: sarà soltanto nel 1980 che gli Stati Uniti riusciranno a bissare il successo di Roma dopo tre pareggi e addirittura ventuno sconfitte.

Nel frattempo, i presidenti Adolfo López Mateos e Lyndon Johnson hanno scritto - anzi, sottoscritto - l'epilogo sulla questione del Chamizal firmando nel 1964 un trattato. S'intensificano, poi, i transiti quotidiani attraverso la frontiera che fanno del confine tra Messico e Stati Uniti il più attraversato al mondo: negli anni Cinquanta il flusso di braceros clandestini diventa talmente problematico da spingere Washington a tremende deportazioni di massa. E nell'ultimo ventennio del secolo emergono pure i narcotrafficanti: il Cartello di Guadalajara cattura, tortura e uccide Enrique Camarena, messicano naturalizzato statunitense al servizio della Drug Enforcement Administration.


La North American Nations Cup e le qualificazioni ai Mondiali offrono svariate occasioni di rinfocolare la rivalità calcistica. Nel 1991 al "Coliseum" di Los Angeles messicani e americani si scontrano nelle semifinali della prima CONCACAF Gold Cup: nello stadio che ospitò i Giochi olimpici gli yankees vincono 2-0. I messicani si vendicano un paio di anni dopo nell'atto supremo della competizione davanti ai 120mila del monumentale "Azteca".

Il 1° gennaio 1994, a pochi mesi dal fischio d'inizio dei Mondiali, entra in vigore il North American Free Trade Agreement firmato da Washington e Città del Messico assieme al governo canadese. Il 4 giugno al "Rose Bowl" si rinnova la sfida con un'amichevole di preparazione al grande evento: la risicata affermazione degli USA fa sì che le gerarchie inizino progressivamente a rovesciarsi. La conferma arriva l'anno seguente dallo straripante 4-0 nella U.S. Cup - mai i messicani avevano ricevuto uno schiaffo così doloroso - che fa conoscere Claudio Reyna al grande pubblico e dal successo ai calci di rigore nei quarti di finale della Copa América in Uruguay.

Ma c'è una partita che, al momento, rimane un unicum negli oltre 80 anni di rivalità tra Stati Uniti e Messico: ai Mondiali nippocoreani i loro destini s'incontrano il 17 giugno 2002 agli ottavi di finale. La nazionale di Javier Aguirre ha dominato il girone che comprendeva Italia e Croazia, quella di Bruce Arena ha rischiato di essere sbattuta fuori al primo turno dopo aver sconfitto a sorpresa il Portogallo al debutto. Ma il passaggio all'eliminazione diretta sovverte i pronostici: gli USA sfondano dopo pochi minuti con McBride e a metà ripresa raddoppiano con Donovan. Two-nil. O meglio: Dos a cero. È il titolo perfetto per un risultato che sarà rinfacciato ciclicamente ai tifosi avversari e che non tarda a entrare nel mito.

L'impresa di Jeonju viene adeguatamente glorificata dai quotidiani statunitensi - del resto, il ricordo dell'attentato alle Torri Gemelle è ben presente e il patriottismo a stelle e strisce una sua ovvia conseguenza - e, soprattutto, segna una svolta definitiva: per gli americani il soccer non è più una chimera. Nello stesso periodo i rapporti diplomatici si deteriorano: l'amministrazione Bush vara nel 2005 l'operazione Streamline che sfocia nel potenziamento del cosiddetto "muro di Tijuana", una barriera di sicurezza per impedire ai migranti di oltrepassare illegalmente la frontiera.

La Gold Cup e le qualificazioni ai Mondiali rimangono la principale occasione di incontro, anzi, di scontro. Il Messico tocca l'apice alzando la coppa nel 2009 e nel 2011 violando santuari del football americano come il "Giants Stadium" di East Rutherford - qui finisce addirittura in goleada: 5-0 - e il sopraccitato "Rose Bowl". Lo stesso che ospiterà la sfida di domani sera che, a ben vedere, coniuga esattamente la Coppa del Mondo con quella centronordamericana.


Sotto il sole della California le due nazionali si giocano prestigio, onore e posto in Confederations Cup. E come ogni grande sfida che si rispetti non mancano i personaggi da copertina. Come i latinos Ventura Alvarado, Michael Orozco e Nick Rimando, nelle cui vene scorre sangue messicano. Come Giovani dos Santos, l'ex bimbo prodigio del calcio messicano che ora manda in visibilio i tifosi dei Los Angeles Galaxy. E come Clint Dempsey, la stella più fulgida della nazionale americana, che è semplicemente nato in Texas. Dove tutto ha avuto inizio.

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