giovedì 21 gennaio 2010

Calcio, media e potere - 1


Non so voi, ma quando mi imbatto nelle critiche al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi leggo, quasi sempre, dei suoi guai giudiziari, dei suoi tentativi di svuotare la democrazia in Italia, dei reati caduti in prescrizione. Quasi mai, invece, mi è capitato di trovare qualche articolo che si concentrasse su un aspetto rimasto molto ai margini di analisi e discussioni che, a mio avviso, è stato invece fondamentale per la sua ascesa al potere, per la creazione ed il mantenimento del consenso: il rapporto tra Silvio Berlusconi ed il calcio.
Era il gennaio 1994 quando, in televisione, annunciò trionfalmente la sua "discesa in campo" in politica, introducendo un linguaggio nuovo, semplice, diretto, che - a quanto pare - trovò terreno fertile in molti italiani appassionati di calcio e, tra questi, i tifosi del suo Milan. Già: inutile sottolineare come Berlusconi abbia saputo conquistare una buona fetta dell'elettorato grazie alla sua immagine di presidente vincente dei rossoneri, che in quegli anni conquistavano scudetti, Coppe dei Campioni e trofei vari.
Pochissimi, dicevo, si sono dedicati ad analizzare in maniera approfondita il fenomeno. Lo ha invece fatto Franklin Foer, giornalista americano che ha scritto qualche anno fa il libro "Come il calcio spiega il mondo - Teoria improbabile della globalizzazione". Lo ha fatto senza "tifare" per Berlusconi o contro Berlusconi, come - ahimé - gran parte della stampa e della politica italiana è ormai avvezza a fare. Lo ha fatto studiando e spiegando il caso con spirito critico e obiettività. Una lettura, quella del suo libro, che vi consiglio vivamente.


« […] Negli anni Ottanta però, la potenza juventina è stata messa seriamente in discussione dal Milan. I nuovi arrivati devono il ritorno al successo quasi interamente al loro vulcanico proprietario, Silvio Berlusconi, che nel giro di vent’anni ha costruito un gigantesco impero economico, partendo dal ramo immobiliare, allargando poi il raggio d’azione alle televisioni, all’editoria, alla pubblicità e alle assicurazioni. Nel 1994, otto anni dopo aver comprato il club, Berlusconi cavalcò l’onda dei propri successi fino a raggiungere la vetta del potere, la presidenza del Consiglio, carica poi ricoperta anche nel 2001.

Secondo i suoi critici appartenenti alla sinistra, il conflitto di interessi che lo riguarda rappresenta una minaccia per la democrazia, foriero di una nuova dittatura: quella di un magnate dei media alla Quarto potere in grado di manipolare e controllare l’opinione pubblica in modo che i propri profitti e il proprio potere non vengano mai messi concretamente in discussione. E nell’economia globalizzata, sostengono quegli stessi critici, i media acquistano un potere ancora maggiore. Oggi questi miliardari non devono più competere o combattere per quote di mercato contro imprese e televisioni statali, ormai indebolite dalla privatizzazione e dalla deregulation. Ora che persone come Silvio Berlusconi sono in rado di operare a livello globale, possono sviluppare economie di scala che li rendono ancora più oligarchici e politicamente intoccabili.
Ma ci sono alcune differenze fondamentali che distinguono i nuovi oligarchi dai loro predecessori. Dal momento che mettono in vendita parte delle proprie imprese sui mercati azionari e stringono accordi commerciali con le multinazionali, diventa molto più difficile per loro mascherare la propria ricchezza e l’influenza che ne deriva. E anche se potessero, una simile umiltà non verrebbe loro naturale. Come Berlusconi, si tratta di nuovi ricchi portati a ostentare le proprie ricchezze. Di conseguenza, tutti sono a conoscenza e comprendono i loro conflitti d’interesse. Naturalmente, questo non li assolve dalle loro colpe – come certamente non può giustificare gli illeciti di Berlusconi, le sue manovre volte a manipolare il governo per proteggere i propri interessi, né altri atti criminosi di cui è sospettato. Serve però a rendere tutto quanto più trasparente e, in qualche strano modo, costituisce un progresso per la democrazia rispetto ai vecchi regimi.

Il Milan acquistato da Berlusconi era un club dal glorioso passato che ultimamente era incappato in un momento difficile. Lui lo ha reso di nuovo grande, trasmettendogli il proprio carisma, il fiuto per lo spettacolo e acquistando giocatori stranieri. Lo stile della Juventus è completamente differente. È sempre stata grande, ed emana quell’understatement dei ricchi di un tempo. I proprietari, gli Agnelli, vengono spesso definiti «la monarchia italiana non ufficiale». Mentre Berlusconi interpreta un personaggio populista, gli Agnelli preferiscono un’immagine patrizia. L’anziano pater familias Gianni Agnelli è stato l’affascinante playboy europeo per eccellenza. […] Qui cessa ogni parallelismo tra politica e sport. Gli eventi degli anni Novanta non hanno trovato riscontro nel mondo del calcio. Il prestigio e la potenza della Juventus non ne hanno risentito più di tanto. Solo che il dominio juventino viene messo a dura prova dall’ascesa di un concorrente formidabile, il Milan del nuovo oligarca Silvio Berlusconi.

Il mondo intellettuale italiano dipinge un ritratto nefasto di Silvio Berlusconi. Lo accusano di essersi fatto prestare dalla mafia i soldi necessari a finanziare i suoi primi progetti immobiliari. L’unico motivo per cui si è lanciato nell’avventura politica, sostengono i suoi detrattori, è stato per proteggere i propri interessi quando il suo protettore politico, Bettino Craxi, è scappato in Tunisia per evitare la prigione. Quando i giornalisti alle sue dipendenze assumono un atteggiamento di sfida nei suoi confronti, lui spesso gli stronca la carriera.
Questa diabolica immagine che avevo nella testa non prometteva niente di buono quando venni rapito da un incaricato del Milan. L’episodio si verificò due giorni dopo la conquista della sesta Coppa dei Campioni – ora denominata Champions League – da parte del club rossonero. Un traguardo che aveva raggiunto solo il Real Madrid. Quel mattino nella mia stanza d’albergo, telefonai al direttore comunicazione del Milan, un tizio giovanile di nome Vittorio. Come quasi tutti nell’organizzazione, un uomo di Berlusconi. È stato per anni un dipendente Fininvest, la holding che rappresenta tutto l’impero di Berlusconi, per poi farsi strada nell’organigramma milanista.
«Prendi un taxi, ti aspetto fra quindici minuti, okay?». Mi diede l’indirizzo di una delle vie più eleganti di Milano. Avevo altri appuntamenti in agenda per quella giornata, ma non potevo rifiutare il suo aiuto.
Quando arrivai, un uomo con la barba e una giacca di pelle mi strinse la mano con forza. «Frank? Scusami un attimo, per favore». Prese il suo cellulare, si girò di spalle e cominciò a parlare in fretta, ma sottovoce. Un’auto tedesca accostò davanti a noi. «Andiamo», mi disse, allontanando dalla bocca la parte bassa del cellulare. Pensavo che avremmo preso un caffè o che ci saremmo accomodati nel suo ufficio. Ero su una macchina che sfrecciava per Milano con la tipica velocità degli italiani, e non sapevo neanche dove fossimo diretti. Non ricordo che al telefono si fosse parlato di alcun viaggio, men che meno di prendere l’autostrada, cosa che stavamo facendo in quel momento.
Finalmente, Vittorio rimise in tasca il cellulare. Troppo imbarazzato dal fatto di ignorare la nostra destinazione, non gli posi la domanda più ovvia e chiarificatrice. Presto però, Vittorio mi disse abbastanza da farmi intuire che stavamo andando al campo d’allenamento della squadra, a Milanello.
«Quando torneremo in città? Ho degli appuntamenti fissati per il pomeriggio», gli chiesi.
«Chi lo sa?». Si girò verso di me dal sedile anteriore con un largo sorriso: «Non ti preoccupare. L’ufficio stampa del Milan si occuperà di tutto», mi disse dandomi un colpetto sul ginocchio.
Al Milan piace coltivare un’immagine glamour, e Milanello rappresenta in pieno questa aspirazione perfino nel nome. Con le sue costruzioni basse e allungate, circondate da terrazze pergolate, un roseto e alberi magnificamente integrati con il paesaggio non mi avrebbe sorpreso scoprire che Milanello in passato fosse appartenuta a qualche facoltoso visconte.
«Ti faremo fare una passeggiata», mi annunciò Vittorio, mettendomi una mano sulla spalla. «Ma prima, pranziamo». Dopo aver ordinato un espresso per me al bar della squadra, mi guidò in un salone per cene di lavoro in cui i giovani giocatori stavano pranzando senza fretta, sprofondati in moderne poltrone dallo schienale alto.
Il gusto è impeccabile. Le porte sono dipinte di un rosso laccato con i bordi neri, i colori della squadra. I divani bianchi risplendono nell’ambiente minimalista come se ci trovassimo in un hotel di Ian Schrager. Dopo pranzo, Vittorio mi fece accomodare in una saletta le cui portafinestre danno sul campus di Milanello. «Aspetta qui», mi disse. Due giorni prima, a Manchester, il Milan si era laureato per la sesta volta campione d’Europa, vincendo ai calci di rigore dopo 120 minuti di partita a reti inviolate. Mentre aspettavo Vittorio, entrò l’allenatore del trionfo, Carlo Ancelotti, reggendo il massiccio trofeo appena conquistato. Era seguito da un’orda di cameriere che applaudivano e da altri impiegati di Milanello. Mentre si lasciava fotografare insieme a loro, arrivarono alla chetichella i giocatori della squadra. Io avevo aperto un libro e facevo finta di leggerlo, ma in verità Vittorio aveva organizzato per me una scena che la maggior parte degli italiani farebbe a botte per vedere. Una parata dei miglior giocatori del mondo venne da me e mi strinse la mano. Poi, a turno, abbracciarono Ancelotti e sollevarono la coppa. Il morale di tutti era molto alto e, dopo aver conosciuto questi dei del pallone, lo era anche il mio.
Andai a cercare Vittorio e lo trovai seduto al bar intento a bersi l’ennesimo caffè.
«Un favore. Vorrei andare alla partita di domani sera. Potresti farmi avere un accredito o un biglietto?». Volevo a tutti i costi vedere il Milan giocare nel suo stadio: San Siro. E la sera successiva giocava contro la Roma nella finale di Coppa Italia, un torneo che dura tutta la stagione ed è secondo solo allo scudetto in ordine d’importanza.
«Ma dai!» mi disse, scrollando le spalle. «L’ufficio stampa del Milan può farti avere tutto quello che vuoi»
Mentre nessuno sa di preciso come faccia la Juve ad assicurarsi un trattamento di favore da parte degli arbitri, gli esperti di calcio sanno benissimo come faccia il Milan: manipolando la stampa. Il club è famoso per la grande disponibilità, la stessa che sta dimostrando anche nei miei confronti. Mentre la Juve permette una certa riluttanza che i suoi giocatori rilascino dichiarazioni, e a volte nemmeno quello, il Milan mette i giocatori a disposizione della stampa per ore. Perfino Berlusconi, noto per tenersi alla larga dai giornalisti politici, risponde sempre alle domande del suo amato Milan. […] Sono stato alla Casa Bianca e ho vissuto da vicino la campagna per le elezioni presidenziali americane, ma neppure Karl Rove e Karen Hughes si giocano il rapporto con i media con l’abilità del Milan.

(continua)
Fonti:
F. Foer, "Come il calcio spiega il mondo", Baldini e Castoldi / Dalai Editore, 2003, p. 188-215

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