martedì 7 giugno 2011

Big in Japan - 6


I tifosi degli Urawa Red Diamonds

A scuola di calcio. Campionato: celo. Squadre (dieci): celo. Giocatori, tra cui grandi campioni stranieri: celo. Atmosfera da stadio: mi manca. Mentalità vincente dei giocatori: mi manca. Nonostante il massiccio impegno economico da parte di Kawabuchi, che mette in guardia i presidenti delle varie società (le stime parlano di un disavanzo di un miliardo di yen per i primi 10 anni), il calcio giapponese è un prodotto freddo e senz'anima, per quanto valido. Mancano la passionalità ed il coinvolgimento del pubblico. Che poi sono i fattori decisivi per fare di una semplice partita di pallone un vero e proprio spettacolo. 

Un primo problema si presenta in occasione delle partite: c'è di positivo che i biglietti per lo stadio vanno a ruba, ad eccezione degli Yokohama Flügels, la squadra di proprietà dell'ANA, la compagnia aerea. Ma, una volta sugli spalti, il pubblico è spaesato: non sa come fare il tifo per la propria squadra, vede oltraggioso offendere gli avversari o l'arbitro. E poi ci sono quelle buone maniere, dure a morire, che impongono ai giapponesi di controllare le emozioni e di non atti-rare troppo l'attenzione nei luoghi pubblici. 

I presidenti delle neonate squadre devono ovviare in qualche modo a tale problema: Yoshiharu Yamamoto, numero uno dei Flügels, s’inventa un gruppo di tifosi (i Jets) che viene rifornito di tamburi e ballerini di samba e "catechizzato" a cori e battimani. Nelle curve degli stadi di tutto il paese, poi, spuntano i primi capi ultrà, versione nipponica di quelli italiani, fondamentali per creare la giusta atmosfera ad una partita.

E se il Verdy Kawasaki è all'avanguardia con il gruppo Camisa Doze, tra ballerini di samba e tifo in rosa, il Kashiwa Reysol ha i sostenitori più calorosi, dotati persino di fumogeni. Ma a fare scuola sono soprattutto gli Urawa Red Diamonds, grazie al lavoro svolto dal segretario Hiroshi Sato: la comunità locale si stringe attorno alla squadra, si riconosce nei suoi beniamini e manifesta con orgoglio la propria identità territoriale, pur vivendo in un anonimo sobborgo della capitale. Non è una bella pubblicità per la J.League che solo una parte degli stadi partecipi attivamente al tifo, è vero. Ma, almeno, non ci sono scontri violenti tra i tifosi né hooligans.

Quanto ai calciatori, non è certo la tecnica a preoccupare. Anzi: in un paese in cui la dimostrazione di essere in possesso di strane abilità ed il perfezionamento dei movimenti è all'ordine del giorno, i giocatori sono grandi palleggiatori, dotati di una tecnica sopraffina. Manca qualcosa, però. E non sono solo le conoscenze tattiche: i calciatori giapponesi sono atleti diligenti, educati, corretti. Ma non hanno la cattiveria agonistica che si addice ad un atleta professionista: in campo non si può urlare ai più anziani né riprendere un compagno di squadra che commette un errore (questioni di gerarchia e di armonia, secondo la cultura locale), nessuno sa cosa deve fare quando si ritrova il pallone tra i piedi.

E poi sono insicuri, ansiosi, temono di sbagliare e non sono mai soddisfatti di quello che fanno. Non hanno la volontà di vincere e invece ne sentono il dovere. In compenso, sono veloci e ben disposti all'apprendimento, al punto da prendere nota di qualsiasi cosa dicano i campioni stranieri, e sono di una squisita bontà. 

Emblematico quello che capita al brasiliano Jorginho in un match tra Kashima Antlers e Shimizu S-Pulse: dopo aver spinto un avversario si vede arrivare incontro un altro giocatore della squadra rivale che, anziché litigare con lui, gli chiede un autografo. Per i vari allenatori europei e sudamericani che arrivano nella J.League l'approccio con la realtà è sconvolgente.

Ma, dopo le difficoltà iniziali, riusciranno a far crescere i giapponesi e ad insegnar loro qualcosa: Arsène Wenger fa capire ai giocatori che, in una partita, devono ragionare con il proprio cervello e saper prendere l'iniziativa personale, Dunga invita i suoi compagni di squadra a giocare con maggior malizia e svela loro qualche trucco per trarre in inganno l'arbitro e guadagnarsi un rigore o una punizione. 

I giapponesi sono disposti ad imparare da chi ne sa meglio di loro e lo sanno fare piuttosto in fretta, si diceva. Risultato? Sfumata di un soffio la qualificazione ai Mondiali americani, la nazionale giapponese non manca ormai dal 1998 ed una di queste edizioni, quella del 2002, la gioca in casa. E poi c'è la vittoria nell'ultima Coppa d'Asia. E gli ingaggi di numerosi nipponici all'estero.

La qualificazione ai Mondiali in Francia fa da spartiacque: i giapponesi ritornano a sventolare la bandiera del loro paese, il ct Takeshi Okada esclude progressivamente Miura per puntare invece su un giovane di nome Hidetoshi Nakata. Idolatrato dalle ragazzine, è un personaggio che fa discutere: si colora i capelli, veste casual, litiga con i giornalisti, in campo grida ai compagni più anziani. Rompe, insomma, le regole più ferree della società. Ma è comunque lui il nuovo trascinatore della nazionale. Un segno dei tempi e della globalizzazione del calcio. 

(6 - continua)

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