Se c'è una squadra, in Israele, legata a doppio filo al potere - militare, politico e religioso -, quella è il Beitar Gerusalemme. Dalla nascita ad oggi è sempre stato collegato all'estrema destra israeliana, agli ebrei ultraortodossi e nazionalisti. Tanto più che i suoi tifosi, considerati i più razzisti e violenti di tutto il paese, si vantano di un primato del tutto particolare detenuto dalla loro squadra del cuore: il Beitar non ha mai ingaggiato - e, probabilmente, mai ingaggerà - giocatori musulmani.
Le origini. Il Beitar Gerusalemme vede la luce nel 1936 per volontà di David Horn, leader della sezione locale del Betar, e del suo vice Shmuel Kirschstein. Il Betar è un movimento giovanile, aderente al revisionismo sionista, fondato tredici anni prima in Lettonia: radicale e nazionalista, fin dalla sua creazione viene accostato al partito di estrema destra Herut, oggi Likud, ed ha al suo interno l'ala militare Irgun.
La neonata società attinge dal movimento per reclutare i suoi primi calciatori ma, dopo due anni appena, è già costretta a cessare l'attività: temendone le posizioni politiche, le autorità britanniche - all'epoca i territori della Palestina, che comprendevano anche l'attuale stato di Israele, erano un mandato - fanno arrestare e deportare numerosi calciatori in Eritrea. Talmente numerosi che viene creata la squadra del Betar Eritrea.
Frattanto, nella capitale, Horn ribattezza la società Nordia Gerusalemme - dal nome di un moshav shitufi, cioè un villaggio collettivo simile ai kibbutz, fondato da soldati dell'Irgun in smobilitazione - negando qualsiasi tipo di rapporto con il gruppo paramilitare.
Si arriva poi alla creazione dello stato di Israele. Nasce, così, anche il primo campionato nazionale, suddiviso in più categorie. Il Beitar parte dalla Liga Alef, all'epoca la serie B israeliana, e nella stagione 1953-54 raggiunge la massima serie, allora rappresentata dalla Liga Leumit.
Il paradiso, però, dura appena un anno: la squadra chiude all'undicesimo posto (su quattordici) ed è così costretta a giocarsi la permanenza in categoria attraverso i play-off/play-out. Qui l'undici di Gerusalemme non riesce a vincere neppure una partita, cedendo così il proprio posto al neopromosso Maccabi Jaffa. Addio, Liga Leumit.
Dall'anonimato alla gloria. Negli anni Cinquanta e Sessanta il Beitar e le sue vicissitudini sono lo specchio della condizione della capitale israeliana, che si presenta come una zona povera, abbandonata al proprio destino.
Il Beitar è una squadra dilettantistica, costretta a giocare su un a superficie in terra battuta anziché in erba: il campo è quello del circolo Ymca, aperto nel 1933 da Lord Allenby, la cui targa recita, beffardamente, "In questo posto è possibile dimenticare i contrasti religiosi e politici e sviluppare la concordia internazionale".
A quanto pare, però, una volta usciti da quel campetto di periferia ci si dimentica a sua volta di aver rimosso dalla memoria quei contrasti. Perché Gerusalemme è lacerata da svariate divisioni: c'è quella - religiosa - tra ebrei mizrahi, provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa mediterranea, ed ebrei ashkenaziti, le cui radici sono nell'Est Europa; c'è quella - politica - tra i laburisti del Mapai ed i nazionalisti dell'Herut; c'è quella - sociale - tra l'establishment ed i cittadini.
Anche il calcio non poteva rimanerne immune: opposto al Beitar ultraortodosso e conservatore c'è l'Hapoel, la squadra della classe operaia, della corrente progressista del movimento sionista.
La situazione viene completamente stravolta nel 1967, con la Guerra dei sei giorni: un conflitto tanto breve - sei giorni, appunto, dal 5 al 10 giugno - quanto estremamente proficuo per Israele che quadruplica l'estensione del proprio territorio, occupando la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, Gerusalemme Est, la Cisgiordania e le alture del Golan. Tra i comandanti dell'esercito israeliano compaiono i futuri primi ministri Yitzhak Rabin e Ariel Sharon.
L'evento sconvolge per sempre i destini di Gerusalemme. E, con essa, anche i destini della sua squadra. L'anno successivo, al termine di un campionato spalmato su due stagioni, il Beitar conquista la promozione nella Lega Leumit: è di Udi Rubowich, che oggi gestisce una ditta di ricambi per auto a nord di Gerusalemme, il gol che riapre le porte della massima serie al Beitar dopo quattordici, lunghi anni di attesa.
Il ritorno della squadra della capitale nella Liga Leumit è il prodromo ad un altro storico successo, quello dei partiti conservatori alle urne. Nove anni dopo la promozione del Beitar, nel 1977, il Likud - forza politica che da pochi anni ha raccolto l'eredità lasciata dal vecchio Herut - sale al potere con l'ascesa di Menachem Begin, ex comandante dell'Irgun, alla carica di Primo ministro: per la prima volta dalla fondazione d'Israele, i laburisti si ritrovano a sedere sui banchi dell'opposizione.
Per il Beitar e per le forze politiche legate alla squadra inizia una nuova era, suggellata dal conferimento del Premio Nobel per la pace a Begin, nel 1978, per aver restituito la penisola del Sinai agli egiziani e dalla contemporanea retrocessione nella Liga Artzit - la nuova seconda divisione, ereditiera della Liga Alef - degli acerrimi rivali dell'Hapoel, l'altra squadra della capitale, nel 1979.
Negli anni Ottanta arrivano altri successi, tanto sul campo (altre due Coppe di Stato dopo quelle del 1976 e del 1979) quanto alle elezioni: mentre il Beitar raccoglie infatti un numero crescente di tifosi a Gerusalemme, complice la crisi di risultati dell'Hapoel, il Likud mantiene la sua posizione dominante nello scenario politico.
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L'anno chiave è il 1986: per la squadra inizia la stagione che si concluderà con la conquista del primo scudetto, il partito torna al potere dopo il breve interregno laburista di Shimon Peres.
L'artefice degli straordinari trionfi sul campo è Dror Kashtan, bandiera dell'Hapoel Petah Tikva da giocatore ed ex selezionatore della nazionale israeliana Under 21. Un nome che scriverà pagine indelebili della storia del Beitar.
Caduta e risalita. Ma gli anni Novanta, almeno agli inizi, offuscano l'immagine vincente del club: corre la stagione 1990-91 e il Beitar scivola nella Liga Artzit, chiudendo con appena venticinque reti, peggior attacco del campionato. Oltre al danno, la beffa: i gialloneri retrocedono mentre l'Hapoel Gerusalemme guadagna la permanenza nella massima serie.
Ma la ruota gira: trascorre un solo anno e i ruoli vengono rovesciati, i rivali di sempre salutano la Liga Leumit che, invece, accoglie nuovamente il Beitar. Frattanto, sulla panchina giallonera torna a sedere Keshtan ed il santone di Petah Tikva compie un altro miracolo, regalando alla città santa il secondo scudetto nella sua storia.
Corre il 1993, altro anno chiave: se i tifosi gialloneri festeggiano per le strade la conquista di un altro titolo nazionale, i vertici del Likud celebrano la vittoria alle elezioni amministrative di Ehud Olmert. Il futuro premier israeliano è il nuovo sindaco di Gerusalemme e la sua affermazione pone fine alla lunga egemonia di Theodor Kollek, alla guida della capitale per ventotto anni: è al laburista di origini ungheresi che, curiosamente, sarà intitolato lo stadio dove il Beitar gioca i propri incontri casalinghi, un impianto del quale Kollek stesso caldeggiò fortemente la costruzione.
Nella seconda metà della decade la squadra, allenata nuovamente da Keshtan, si laurea campione d'Israele in altre due circostanze, aggiudicandosi pure una Coppa Toto. Ma i quadri dirigenziali della società non si dimostrano altrettanto virtuosi al pari dei calciatori: il Beitar inizia a navigare in cattive acque, le incertezze finanziarie influiscono sul rendimento della squadra che, all'improvviso, non sa più vincere.
Il sereno torna solamente nell'estate 2005, quando la società viene rilevata dal tycoon di origini russe Arcadi Gaydamak che, nel breve volgere di due anni, entrerà in politica fondando il partito Giustizia Sociale e farà affari nel mondo dell'editoria e della comunicazione. L'oligarca si rende subito antipatico agli occhi dei tifosi donando 400mila dollari al Bnei Sakhnin, la più popolare squadra israeliana di matrice araba, ma si fa perdonare portando a Gerusalemme nomi altisonanti come quelli degli allenatori Luis Fernández e Osvaldo Ardiles e dei giocatori David Aganzo e Jérôme Leroy.
In quattro anni il Beitar vince altri due campionati e altrettante Coppe di Stato, centrando pure una doppietta nel 2008. Da un anno la proprietà del club è passata nelle mani del milionario Guma Aguiar, natali brasiliani e passaporto statunitense.
I tifosi. Ironia della sorte, uno dei più attivi sostenitori del Beitar si chiama Guy Israeli: nella vita di tutti i giorni è un consulente fiscale, allo stadio è uno dei "padrini" de La Familia, unico gruppo di tifoseria organizzata della squadra di Gerusalemme.
Nato cinque anni fa sulle ceneri del vecchio Ultras Lions' Den, il gruppo ha un'ispirazione profondamente latina: il nome di battesimo è spagnolo, i modelli di riferimenti sono tanto gli ultrà italiani quanto le Barras Bravas sudamericane.
Il gruppo conta circa 250 membri attivi e, nonostante le sue origini recenti, è salito agli onori delle cronache per i comportamenti violenti e le manifestazioni di razzismo da parte dei suoi sostenitori: Itzik, tifoso del Beitar, non ha problemi a dichiarare che "non abbiamo amici. Nessuno ci ama. Ma non importa, non fa niente".
Tre anni fa hanno destato scalpore fischiando, prima di una partita, il minuto di raccoglimento in memoria di Yitzhak Rabin, il premier israeliano assassinato nel 1995 da un estremista ebreo, nel dodicesimo anniversario della sua morte.
Le rivalità maggiori sono con le due principali formazioni di Tel Aviv, Hapoel e Maccabi, ma bersaglio dei cori de La Familia sono anche le tifoserie di Maccabi Haifa e Bnei Sakhnin, la squadra che ha maggior seguito tra gli arabi israeliani.
"Noi odiamo arabi e musulmani - esclama il diciannovenne Eliran - se un arabo gioca per il Beitar, noi gli bruciamo il culo. Sono nostri nemici". La società calcistica non può far altro che comportarsi di conseguenza:
"Se ci fosse un giocatore arabo piuttosto bravo, prenderei in considerazione l'idea di portarlo qui - dichiarò in un'intervista l'allora allenatore Osvaldo Ardiles, campione del mondo nel 1978 - ma il Teddy Stadium è un luogo particolare e non so se un calciatore arabo sarebbe in grado di giocare con questo livello di animosità da parte della nostra tifoseria. Certo, preferirei che non ci fosse, ma le cose stanno così".
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Abbas Swan ha provato sulla sua pelle cosa significa. Lui è uno dei simboli del Bnei Sakhnin, la squadra in cui è cresciuto calcisticamente: era tra i protagonisti dello storico successo nella Coppa di Stato del 2004, primo trofeo nazionale per una squadra arabo-israeliana.
Swan è una sorta di eroe nazionale per tutti i discendenti dei palestinesi che, nel 1948, non abbandonarono la loro terra: è il marzo 2005 e grazie ad un suo gol in zona Cesarini la nazionale israeliana pareggia contro l'Irlanda in un incontro di qualificazione per i Mondiali.
Una settimana dopo, gioca in campionato contro il Beitar e dagli spalti del Teddy Stadium i tifosi gialloneri srotolano uno striscione poco equivocabile: "Swan, non ci rappresenti".
A fine partita, l'attaccante rilascia un'intervista ad un'emittente tv: in quell'istante, alcuni sostenitori del Beitar fanno irruzione in sala stampa e tentano di aggredire il calciatore, che riesce a sfuggire e, in seguito, denuncia il mancato intervento degli addetti alla sicurezza del Teddy Stadium.
E non è tutto: Gaydamak lo corteggia, prova addirittura a fargli indossare la maglia giallonera. Swan, alfiere della lotta al razzismo e sostenitore della coesistenza tra arabi e israeliani, sembra quasi accettare: andare a giocare nel Beitar equivarrebbe ad abbattere un tabù, a lanciare un segnale di distensione.
Nulla da fare: i tifosi de La Familia manifestano il loro più profondo dissenso, la dirigenza fa un passo indietro e comunica a Swan che il primo trasferimento di sempre di un calciatore musulmano nel Beitar non s'ha da fare.
Né domani, né - probabilmente - mai.
Fonti:
Buck, Thomas (2010). The not-so-beautiful game of football in Israel, Financial Times, 2 gennaio.
Goldblutt, David (2008). Likud on the terraces, Prospect, 29 giugno.
Montague, James (2006). Rockets, riots and rivalry, The Guardian, 26 novembre.
Krankow, Matan (2007). Beitar fans boo Rabin before 0-0 draw, Haaretz, 5 novembre
Peace Reporter (2008). La guerra continua, ma su un diverso campo di battaglia, 7 marzo.
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