C'è una frase di Beppe Severgnini, citata nel suo spassosissimo libro "Un italiano in America", che descrive alla perfezione quanto suoni sinistro accostare il nome degli USA a quello del calcio:
"L'assegnazione della Coppa del Mondo agli Stati Uniti si spiega soltanto con questo spirito missionario. Altrimenti, dovremmo concludere che è stato un atto di allegra follia, come organizzare le World series di baseball in Corsica ed il Superbowl in Ucraina".
In effetti, soccer e States non sono mai andati particolarmente d'accordo: ci fu la NASL, è vero, con l'approdo di numerosi campioni europei - molti dei quali, però, ben avviati sul viale del tramonto - ma poi il giocattolo si ruppe.
Poi, un bel giorno, gli americani si ritrovarono a festeggiare due volte nella medesima occasione: era il 4 luglio 1988, giorno dell'Independence Day, ed Henry Kissinger, ex segretario di stato e gran tifoso dei defunti New York Cosmos, annunciò l'assegnazione della Coppa del Mondo di calcio del 1994 agli Stati Uniti. Un evento storico, al quale i padroni di casa si presentarono così...
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Quella nazionale di calcio maschile altro non era che la semplice applicazione in ambito sportivo del mito del meltin' pot, il 'crogiolo di razze'. Perché è proprio in questo complesso fenomeno che sono racchiuse le radici degli Stati Uniti.
Era da considerarsi, dunque, naturale che la selezione del soccer fosse composta da giocatori le cui origini solcavano gli oceani e le frontiere. Una sorta di ONU del pallone. A partire dal commissario tecnico, quel Velibor "Bora" Milutinović nato in Serbia a cento metri dal confine bosniaco, ma divenuto ben presto un cittadino del mondo: ha allenato in Messico e il Messico, ha conosciuto da vicino tanto il calcio sudamericano (San Lorenzo) quanto quello italiano (Udinese), ha scritto la storia della Costa Rica portando la minuscola nazionale agli ottavi di Italia '90.
Un anno dopo il compimento di quella straordinaria impresa, "Bora" viene contattato dalla Federcalcio a stelle e strisce per allestire il Team USA in vista dei primi Mondiali sul suolo patrio: vietato presentarsi impreparati al grande evento. E Milutinović inizia a plasmare la sua nazionale.
Il ct serbo e di passaporto messicano, in verità, pesca molto nei campionati d'oltreoceano. E non per mera esterofilia: il campionato nazionale offre poco, se non addirittura nulla. Bizzarro a dirsi, il Mondiale dovrà fungere da veicolo per la creazione di un campionato di calcio nazionale degno di questo nome. Ed è in questa ottica che il 17 dicembre 1993 Alan Rothenberg, numero uno della Federcalcio statunitense, annuncia la formazione della Major League of Soccer (MLS), primo massimo campionato dai tempi della NASL: il fischio d'inizio sarà, con ogni probabilità, nel 1995, ma finirà per slittare all'anno successivo.
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Nel frattempo, Milutinović si ritrova una competizione dal profilo tecnico assai povero: è la American Professional Soccer League, sorta di stadio embrionale della futura MLS, nata dalla fusione tra la Western Soccer League - che inglobava le squadre di città della costa pacifica - e l'American Soccer League - riservata invece ad alcune realtà affacciate sull'Atlantico.
La situazione è resa ancor più complicata da una galassia di altre sigle - CISL, MISL e NPSL - che identificano altrettanti campionati dedicati all'indoor soccer: introdotto a livello pionieristico già nel 1939 e praticato saltuariamente in vari stadi, viene istituzionalizzato nel 1977 con la creazione della Major Indoor Soccer League da parte di Earl Foreman. L'avvocato non esita a definirlo "lo sport che gli americani vogliono", uno spettacolare ibrido tra calcio ed hockey su ghiaccio il cui rettangolo di gioco è un campo in erba sintetica delimitato da quattro pareti, sulle quali il pallone rimbalza senza mai uscire - diversamente dal calcetto italiano, pertanto, non esistono falli laterali o rinvii dal fondo.
Ed è da questa bizzarra disciplina, così come dall'ambiente accademico, che provengono alcuni elementi della nazionale di Milutinović. Fatto assai inusuale, nella lista dei convocati figurano numerosi calciatori affiliati all'US Soccer Team: molti di essi, infatti, avevano stipulato un contratto con la Federcalcio per giocare a tempo pieno solo con la nazionale, impegnata a disputare svariate amichevoli in preparazione al grande evento.
Ma, ancor prima che dell'indoor soccer o dell'universo dei college, il Team USA è figlio dell'immigrazione e dell'integrazione: più di un giocatore vanta antenati europei o sudamericani. Chi meglio di Tony Meola per indossare la fascia di capitano di questa (multi)nazionale?
Ma, ancor prima che dell'indoor soccer o dell'universo dei college, il Team USA è figlio dell'immigrazione e dell'integrazione: più di un giocatore vanta antenati europei o sudamericani. Chi meglio di Tony Meola per indossare la fascia di capitano di questa (multi)nazionale?
Il portiere titolare è figlio di Vincenzo, avellinese che decide di cambiar vita e si trasferisce a Kearny, sobborgo di Newark popolato da irlandesi e scozzesi, dove cerca fortuna come barbiere: da lui eredita l'interesse per il calcio e pure quello per la buona cucina, famosi rimarranno i manicaretti preparati ai suoi compagni durante i mesi di ritiro a Mission Viejo.
Milutinović sceglie così un paisà come rappresentante della sua squadra multietnica. Anche le riserve di Meola hanno radici nel Vecchio Continente: Jürgen Sommer, dodicesimo uomo, discende da una famiglia tedesca. E, come lui, anche il terzo portiere Brad Friedel. Entrambi, diversamente da Meola, trascorreranno gran parte della loro carriera sportiva in Inghilterra.
La difesa sembra il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La sua colonna portante è il centrocampista arretrato Thomas Dooley: è nato a Bechhofen, nella vecchia Germania Ovest, da madre tedesca e da padre americano, un ufficiale dell'esercito scomparso quando lui era ancora in tenera età.
Contrariamente ad altri compagni di squadra, Dooley si forma nel calcio mitteleuropeo: dopo gli inizi nelle categorie inferiori, sbarca nella Bundesliga e strizza l'occhio ad una possibile convocazione nalla nazionale di Berti Vogts. Che non lo chiamerà mai.
Una volta scoperte le sue origini, è la US Soccer ad offrirgli l'opportunità di partecipare al Mondiale in casa. Al suo fianco agisce un personaggio che definire eccentrico è puro eufemismo: all'anagrafe il nome di battesimo è Panayotis Alexander, ma tutti lo chiamano semplicemente Alexi. E di cognome fa Lalas, chiare origini greche (il padre Dimitris è un immigrato).
Chioma lunga color carota e pizzetto caprino, è un artista prestato al calcio: Lalas è infatti voce e chitarra del gruppo rock Gypsies, tra i cantanti preferiti di Chelsea Clinton, la figlia del presidente degli USA. Sul campo, però, se la cava egregiamente, tanto da ricevere addirittura la chiamata della serie A italiana dopo i Mondiali: è il Padova ad ingaggiarlo, principalmente - forse - per ragioni di marketing, e nella stagione d'esordio segna tre reti, tra cui una ai danni del Milan di Fabio Capello.
Altra pedina fondamentale è il centrale difensivo Marcelo Balboa: gli garantiscono una certa notorietà tra i tifosi quei mustacchi nero corvino da attore di telenovelas e le sue strabilianti rovesciate. Marcelo è nato a Chicago da padre argentino, Luís, calciatore professionista in patria e nella defunta NASL.
A protezione della porta di Meola, Milutinović chiama anche Cle Kooiman, spilungone di origini olandesi che gioca in Messico nel Cruz Azul dopo aver iniziato la carriera nella MISL. E poi ci sono due vecchie glorie. Una è Paul Caligiuri, sangue calabrese, mezzala destra riciclata nel ruolo di terzino: suo lo storico gol contro Trinidad e Tobago che qualificò gli Stati Uniti a Italia '90, quaranta anni dopo l'ultima apparizione ad un Mondiale.
L'altra è il terzino Fernando Clavijo, stella del calcio al coperto ormai prossima al venerabile traguardo dei trentotto anni: uruguayano di Maldonado, ha ottenuto in seguito il passaporto statunitense ed ha persino vinto un argento ai Mondiali di futsal ad Hong Kong sotto la bandiera a stelle e strisce. Completano la retroguardia Mike Burns e Mike Lapper.
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Il centrocampo è il reparto dove convivono altri americani dalle origini più disparate. Uno dei più celebri è Tabaré "Tab" Ramos Ricciardi: i suoi natali sono a Montevideo, per quanto i due cognomi tradiscano radici spagnole ed italiane. Trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti all'età di undici anni, si stabilisce a Kearny, nel New Jersey: dimostra fin da subito una certa propensione al soccer, tanto da essere scelto dai New York Cosmos nel 1984.
Preferisce, però, dedicarsi agli studi del college: un lustro dopo contribuisce al bronzo degli USA ai Mondiali di futsal in Olanda e, l'anno seguente, approda in Spagna. Divenuto celebre anche per la gomitata rifilatagli dal brasiliano Leonardo che gli causò una frattura al cranio, è stato il primo giocatore messo sotto contratto per la MLS.
Peraltro a Kearny, tirando i primi calci al pallone, Ramos conosce i futuri compagni di nazionale John Harkes e Tony Meola: incursore di origini scozzesi sbarcato agli inizi degli anni Novanta nella Premierleague inglese - ancor oggi è l'unico americano ad aver segnato in una finale di Coppa di Lega, con lo Sheffield Wednesday nel 1993 a Wembley -, Harkes è l'autore ad USA 94 del traversone che il colombiano Escobar devia maldestramente nella propria porta, un autogol che pagherà con la vita al rientro in patria.
Sangue latino, invece, per Claudio Reyna, figlio di un calciatore professionista argentino emigrato - pure lui - nel New Jersey e sposatosi con una donna americana di origini portoghesi. E anche per Hugo Pérez: nato e cresciuto in El Salvador, dove sia il padre sia il nonno avevano giocato a calcio ad alti livelli, si stabilisce negli USA nel 1974 e, dopo quasi dieci anni di attesa, ne ottiene la cittadinanza, in tempo per far parte della selezione olimpica ai Giochi di Los Angeles. Nell'anno dei Mondiali italiani, grazie a Johann Cruijff, sembra ormai certo il suo passaggio al Parma, poi la mancata convocazione alla Coppa del Mondo a causa di un infortunio manda a monte la trattativa: uomo di profonda fede, legge la Bibbia ai compagni durante il lungo ritiro pre-Mondiale.
Antenati tedeschi, invece, per Mike Sorber, terzo elemento della linea mediana nel 5-3-2 di Milutinović, mentre nella schiera dei ragazzotti scovati nelle squadre dei college c'è una giovane promessa con i capelli a treccine che penzolano sul volto dalla pelle mulatta: si chiama Cobi Jones ed è il simbolo della più drammatica migrazione verso gli Stati Uniti, quella della tratta degli schiavi dall'Africa.
Strani incroci tra Vecchio Continente e Continente Nero tra i componenti dell'attacco: la coppia titolare è quella formata da Stewart e Wynalda.
Earnest "Earnie" Stewart nasce nei Paesi Bassi dall'omonimo padre, un afroamericano che lavora nell'aeronautica statunitense, e da Annemien, olandese: eccezion fatta per una fugace quanto tardiva apparizione nella MLS in prossimità del ritiro dal calcio giocato, la sua carriera si concentrerà esclusivamente in Olanda.
Lo stesso paese da cui proviene la famiglia di Eric Wynalda, biondo attaccante che segnerà il primo, storico gol della MLS: appassionato di surf, doti da imitatore e proprietario di un'automobile che sfoggia il suo cognome sulla targa, viene spinto verso il calcio dal padre Dave che, però, pratica il football americano.
Dopo i Mondiali italiani va a giocare in Germania, al Saarbrücken, anche per imparare un po' di disciplina: qui gli viene affibbiato il soprannome di "Big Mac sulla palla".
Tra le loro riserve c'è il promettente Joe-Max Moore. Soprattutto, c'è Fotios "Frank" Klopas, passato in età infantile dalla compostezza del villaggio greco di Prosimna ai rumori di una metropoli come Chicago, dove si dedica all'indoor. Ma il calcio, quello tradizionale, è un'altra cosa. E, da buon greco, non resiste al richiamo della sua terra natìa: per otto anni torna in patria, dove veste le maglie di AEK e Apollon, poi chiude la carriera nella neonata MLS.
Non poteva non far parte di questa selezione multicolore un autentico cosmopolita quale Roy Wegerle: nasce a Pretoria, quando in Sud Africa vige ancora l'apartheid, e nonostante un provino con il Manchester United decide di andare nei college americani per coltivare la passione del calcio, negatagli al liceo perché il pallone era considerato "uno sport per i neri".
In Florida non solo può dare libero sfogo ai suoi interessi, ma conosce anche la moglie Marie Gargallo, di Miami: grazie a questo matrimonio ottiene la cittadinanza USA nel 1991, anche se nel frattempo è volato in Inghilterra per migliorare il proprio livello tecnico. Dopo un lungo girovagare, anche per lui la carriera finirà nella MLS.
Quella nazionale, "con più stelle sulla propria maglia che in squadra" come scrive Gianni Mura, si comporta più che dignitosamente: esordisce con un pareggio contro la Svizzera al "Pontiac Silverdome" di Detroit - primo incontro nella storia di un Mondiale di calcio ad essere disputato al coperto -, supera di misura la Colombia e, infine, rimedia una sconfitta per 1-0 ad opera della Romania. Tanto basta per passare il turno.
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Ma il sogno americano svanisce agli ottavi: passa il Brasile che, due settimane dopo, alza al cielo la sua quarta Coppa del Mondo. Ironia della sorte, la partita da dentro o fuori contro i futuri vincitori si gioca il 4 luglio: in caso di vittoria, sarebbe stata ancora una volta una giornata di doppia festa.
Naturalizzati, afroamericani, immigrati, ispanici: in quel giorno tutti si sarebbero sentiti americani, tutti avrebbero gioito avvolgendosi nella bandiera a stelle e strisce.
E, chissà, avrebbero anche temporaneamente cambiato il nome della loro nazione in United Soccer of America.
Fonti:
Markovits, Andrei e Hellerman, Steven (2001). Offside. Soccer and American Exceptionalism. Princeton Paperback.
http://archiviostorico.corriere.it
http://archiviostorico.gazzetta.it
http://articles.latimes.com
http://ricerca.repubblica.it
http://www.fifa.com
grande articolo!!!!
RispondiEliminaTi ringrazio, ma forse ad essere grandi di per sé sono le storie personali di questi giocatori che hanno segnato il mio battesimo con il grande calcio.
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