sabato 20 agosto 2016

Croazia-Serbia, molto più di una finale


Foto kosovotwopointzero.com

Era la finale annunciata e le aspettative non sono andate deluse: stasera a Rio de Janeiro la medaglia d'oro nella pallanuoto maschile sarà tutta una questione balcanica tra Croazia e Serbia, indiscusse favorite della prima ora. Era la finale annunciata, dopo quella di un anno fa ai Mondiali di Kazan', e non c'è stata smentita neppure stavolta nonostante - è il caso dei serbi - un avvio titubante e un Settebello messosi di traverso nel tentativo di cullare sogni di gloria per lo sport azzurro. Era la finale annunciata e sarà molto più di una finale.

Croazia e Serbia appaiono agli occhi di noi italiani, sconfitti a Rio sia dagli uni che dagli altri seppur in fasi diverse del torneo olimpico, due squadre con parecchie analogie.

La prima: come nella miglior tradizione della vecchia scuola jugoslava, possono annichilire gli avversari più quotati e allo stesso tempo arrancare, o addirittura capitolare, contro rivali abbordabili. I serbi in particolare sembrano i più altalenanti, con gli stentati pareggi con Ungheria e Grecia - frutto comunque di rimonte pazzesche anche solo a pensarle -, con l'onta della sconfitta contro il Brasile del santone Ratko Rudić e con la vittoria stiracchiata sul Giappone.

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La seconda: se sono in giornata di grazia, il destino delle dirette rivali è segnato già in partenza. Sono tremendamente spietate in attacco e accorte in difesa. Fanno fede le due semifinali di Rio: la Croazia ha prima combattuto punto a punto con il Montenegro fino a metà gara salvo assestare progressivamente il colpo di grazia, la Serbia ha messo subito pressione a un Settebello distratto e disorientato per poi impallinare ben sei volte Tempesti senza dare agli italiani l'opportunità di replicare per quasi due tempi, costruendo un divario diventato ben presto incolmabile.

I numeri, in particolare, sono impietosi: i croati hanno chiuso con un 4/4 di gol dal centroboa e con un risicato ma efficace 2/2 in superiorità numerica, i serbi sono stati leggermente meno cinici ma sull'uomo in più hanno sbagliato pochissimo (3/4) e anche sui due metri si sono fatti valere (2/4).

La terza: fanno della forza fisica uno dei punti di forza e sfoggiano eccezionali individualità - citiamo il cecchino croato Sukno e il mancino serbo Filipović, dovendo pronosticare i protagonisti della finalissima - ben amalgamate all'interno di meccanismi ormai rodati da tempo, dove gli ingranaggi funzionano con perfetta sincronia e dove la distinzione tra titolari e riserve va via via assottigliandosi.

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Basterebbe, insomma, uno spaccato della stretta attualità per intuire che sarà una sfida stellare, equilibrata, quanto di meglio la pallanuoto mondiale possa al momento regalare. E poi ci sono i vecchi atlanti di geografia e i tomi di storia a ricordarci perché Croazia-Serbia sarà più di una finale.

Con due nazionali balcaniche in lotta per il titolo olimpico - e il Montenegro in corsa per il bronzo - si ripropone un dilemma che farebbe la fortuna degli scrittori di ucronia, di storia alternativa: se la vecchia Jugoslavia esistesse ancora, che squadra ci ritroveremmo? Sarebbe una nazionale imbattibile, soprattutto in un'epoca in cui Spagna e Italia non sono più regine pressoché incontrastate come negli anni Novanta e l'Ungheria fatica a trovare i degni eredi della generazione che portò a casa tre ori olimpici consecutivi.

Croazia e Serbia, oltretutto, formavano i due grandi blocchi che componevano le nazionali jugoslave di pallanuoto negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Una convivenza tutt'altro che amorevole fin dagli inizi: già nel periodo tra le due Guerre mondiali, dopo la fondazione del comitato olimpico jugoslavo (1919) e della federazione nuoto (1921), i croati mugugnano per il centralismo di Belgrado rispetto alle altre repubbliche. Lo sport diventa uno degli ambiti nel quale affermare il proprio orgoglio nazionale e in Croazia si sottolinea ripetutamente l'origine di certi atleti, soprattutto quando questi recitano un ruolo di prim'ordine nei successi sportivi della Jugoslavia.

Dopo il debutto olimpico a Berlino nel 1936 con un nono posto che oggi scatenerebbe un'insubordinazione popolare, gli slavi interrompono il lungo dualismo Italia-Ungheria poco più di trent'anni dopo e in maniera piuttosto rocambolesca: qualificatisi per la zona medaglie sul filo di lana ai danni della Germania Est grazie a una miglior differenza reti, in semifinale eliminano a sorpresa i magiari campioni in carica.


Nella piscina di Città del Messico la Jugoslavia adorna finalmente il collo con il tanto agognato oro olimpico, battendo 13-11 l'Unione Sovietica al termine di una finale che mette a dura prova la pazienza degli spettatori: vige infatti una bizzarra regola, ben presto abolita, che assegna un tiro di rigore ogni tre falli gravi. Anziché tentare di andare a segno con il centroboa o tramite i tiratori più pericolosi, entrambe le squadre cercano sistematicamente d'indurre l'avversario a incappare nella penalità: non a caso, venti gol su ventiquattro arrivano dal birillo giallo, quello che indica il punto di esecuzione di un rigore.

I due uomini simbolo, guarda caso, sono un croato - Zoran Janković, nato in Bosnia-Erzegovina - e un serbo - il belgradese Mirko Sandić -: costituiscono la coppia d'attacco più temuta dalle difese avversarie. Di quella nazionale fa parte anche un giovane Ratko Rudić, convocato come riserva: non scende mai in acqua e pertanto, in base al regolamento di allora, non gli spetta la medaglia.

Non gli va meglio a Mosca nel 1980, quando la Jugoslavia chiude al secondo posto dietro l'invincibile armata dell'Unione Sovietica - otto vittorie in altrettante gare, attacco più prolifico e difesa meno battuta - in un torneo che non risente affatto del boicottaggio perpetrato da Stati Uniti e Germania Ovest. Ma Rudić si prende ben presto una rivincita una volta intrapresa la carriera di allenatore: le finali conquistate a Europei e Mondiali di categoria gli valgono la chiamata della nazionale maggiore per i Giochi di Los Angeles.


Nonostante l'assenza di sovietici e ungheresi, nonostante un Settebello in crisi d'identità, la Jugoslavia non viene indicata come favorita: gli Stati Uniti sembrano la squadra più attrezzata per vincere. E l'ultima gara del girone finale, decisiva ai fini dell'assegnazione delle medaglie, è proprio lo scontro tra slavi e americani, separati in classifica da appena un punto.

Nella vasca della Pepperdine University di Malibu la nazionale di casa viaggia a vele spiegate verso uno storico oro: è in vantaggio per 5-3 nell'ultimo quarto. Ma gli jugoslavi sono storicamente restii ad arrendersi fintanto che l'arbitro non fischia la fine. E riescono a recuperare il doppio svantaggio bissando il successo di Città del Messico davanti a un avversario, e a un pubblico, ammutolito e frustrato: difficile digerire una medaglia d'argento dopo non aver perso nemmeno un incontro durante il torneo.

La scena si ripete tale e quale quattro anni dopo a Seul, dove stavolta gli slavi si presentano con ben altre credenziali: dopo essersi incrociate nella fase a gironi - per la cronaca vincono gli Stati Uniti -, le due contendenti si ritrovano di nuovo in finale. E anche qui gli americani mal gestiscono un vantaggio di un paio di gol all'intervallo lungo: la Jugoslavia pareggia ancora per poi mandare l'avversario al tappeto nei supplementari.


È forse una delle nazionali più talentuose di sempre, e non solo nella storia dei Balcani: il portiere Aleksandar Šoštar (serbo) è un guardiano attento e sicuro, i difensori Deni Lušić e Dubravko Šimenć (croati) sono abili in marcatura e nella conclusione a rete, Perica Bukić (croato) è un elegante centrovasca - curiosità: il figlio Luka stasera proverà a emularlo -, il centroboa Igor Milanović (serbo) assicura il necessario fabbisogno di gol, gli scattanti Mirko Vičević e Igor Gočanin (montenegrini) sono due spine nel fianco delle retroguardie. Difficile tener loro testa.

Non stupisce che, agli inizi degli anni Novanta, l'egemonia prosegua con la vittoria ai Mondiali di Perth nel 1991 e agli Europei di Atene nello stesso anno. Ma il mito di quella nazionale senza punti deboli finisce sotto le macerie causate dalla guerra civile nei Balcani e rimane vittima dell'avanzata dei nazionalismi, ormai incontrollabili dopo la scomparsa di Tito.

Scoppia il putiferio: l'ONU sanziona la Serbia per i massacri in Bosnia-Erzegovina e Croazia e il CIO si adegua estromettendo le rappresentative nazionali di Belgrado dai Giochi di Barcellona - gli atleti potranno partecipare a titolo personale, e la pallanuoto non rientra ovviamente in questa casistica. Nel frattempo da Zagabria viene ufficializzata la sospensione di club e singoli giocatori nel sistema sportivo jugoslavo: l'entità che riunisce bosniaci, croati, macedoni, montenegrini, serbi e sloveni inizia a scricchiolare fino a sgretolarsi definitivamente. Quelli che prima erano fratelli, sebbene la loro convivenza fosse per molti forzata, ora sono diventati acerrimi rivali.


Assenti a Barcellona, dove in finale arrivano Spagna e Italia sotto la guida di due allenatori balcanici, le nazionali di Croazia e Jugoslavia (o meglio, Serbia-Montenegro) debuttano come nuovi Stati sovrani nel 1996 ad Atlanta. La pallanuoto, che nei Balcani insidia il calcio e la pallacanestro quanto a popolarità, è talmente cruciale nel processo di nation building che i rispettivi comitati nazionali olimpici avvertono l'esigenza di scegliere due campioni delle vasche come portabandiera alla cerimonia inaugurale - gli ormai navigati Bukić e Milanović.

Il destino vuole che le due squadre s'incrocino nei quarti di finale: è un duello talmente intriso di significati, di risvolti che Siniša Školneković, il portiere croato, bacia il pallone ogni volta che riesce a vanificare un tentativo a rete di Milanović. La Croazia vince 8-6 e conquista addirittura l'inimmaginabile accesso alla finalissima, persa al cospetto della grande Spagna di Estiarte, Oca e Rollán, mentre i serbi-montenegrini chiudono mestamente in ottava posizione.


Esattamente venti anni dopo, la sfida si rinnova e stavolta per la conquista della medaglia più pregiata.

Nel mezzo ci sono stati l'infuocata finale degli Europei in Slovenia, uno dei focolai delle rivendicazioni nazionaliste del 1991, decisa da un gol del serbo Šapić nei supplementari e seguita da tafferugli e proteste con tanto di bandiere incendiate; la secessione del Montenegro dalla Serbia (e anche qui è un pallanotista, Veljko Uskoković, a far sventolare la bandiera nella cerimonia d'apertura ai Giochi di Pechino); lo stesso Montenegro che vince gli Europei nel 2008 all'esordio assoluto sconfiggendo in finale proprio la Serbia; ancora serbi e montenegrini che pochi mesi dopo si sfidano per la medaglia di bronzo a Pechino; la Croazia che vince le Olimpiadi a Londra; i "cugini" di Belgrado e Podgorica che si ritrovano nella finale di consolazione per due volte di fila dopo aver sprecato un'imperdibile occasione ad Atene quando erano ancora sotto un'unica bandiera; i serbi che dettano legge a Mondiali ed Europei - e che dire della World League? - ma che puntualmente trovano nell'oro olimpico un'autentica chimera.

E poi ci sono le storie personali di Rudić, belgradese di nascita ma croato a tutti gli effetti; dell'ex capitano e oggi ministro dello sport serbo Vanja Udovičić, vessato da bambino per il suo originario nome di battesimo Franjo, lo stesso del presidente croato Tuđman, al punto da cambiarlo; di Andrija Prlainović, nato a Dubrovnik in Croazia e cresciuto ad Herceg Novi in Montenegro.

Piccola curiosità finale: nel 1968, quando la Jugoslavia vinse il primo oro olimpico, fu determinante per la qualificazione alle semifinali una goleada contro il Giappone nella giornata conclusiva del girone eliminatorio. Andate a vedere chi ha sconfitto la Serbia, ancora a caccia della medaglia più importante, nell'ultima e cruciale partita della fase a gironi...

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