lunedì 1 agosto 2016

Pallanuoto e Olimpiadi: il Brasile ai Giochi del 1932



L’Ungheria sta alla pallanuoto come il Brasile sta al calcio. Un’equazione che nessuno oserebbe mai tentare di confutare dando una sbirciata ai trofei vinti e, in particolare, ai titoli olimpici dei magiari (nove) e a quelli mondiali dei sudamericani (cinque). E se provassimo a invertire gli sport? Gli ungheresi conobbero il loro momento di gloria negli anni Cinquanta con la leggendaria Aranycsapat di Puskás, Kocsis, Czibor e Hidegkuti. Il Brasile, invece, nella pallanuoto è sempre rimasto intrappolato in una sorta di limbo: troppo forte rispetto alle altre nazionali dell’America Latina, troppo debole per insidiare le corazzate europee. Soprattutto, detiene un poco invidiabile primato: a tutt’oggi è l’unica squadra ad essere stata squalificata dal torneo olimpico di pallanuoto.

Nata e sviluppatasi nella seconda metà del 1800 in Inghilterra, la pallanuoto sbarca in Brasile agli inizi del secolo seguente: risale al 1908 la prima partita di cui si hanno notizie certe - Natação e Regatas contro Flamengo - che agita le acque della spiaggia di Santa Luzia. La nazionale brasiliana debutta ai Giochi olimpici di Anversa del 1920, eliminando subito la più esperta Francia, che quattro anni dopo metterà al collo addirittura la medaglia d’oro, e uscendo contro la Svezia in procinto di vincere il bronzo.

Saltate le successive due edizioni, il Brasile si ripresenta a Los Angeles nel 1932. È un’Olimpiade partita sotto i peggiori auspici, martoriata dalla Grande depressione: sono appena 37 i Paesi partecipanti e alcuni, come Haiti, Egitto e Uruguay, mandano appena un atleta in rappresentanza dell’intera nazione. 

Nella pallanuoto, uno dei pochissimi sport di squadra a non essere stato depennato dal programma ufficiale, le difficoltà sono ancor più evidenti: cinque nazionali e basta. E menomale che ci sono Germania e Ungheria, finaliste quattro anni prima ad Amsterdam, ad affiancare gli Stati Uniti padroni di casa, il Giappone e il Brasile stesso e a rendere accettabile il livello tecnico della competizione.


I brasiliani si presentano a Los Angeles al termine di un’inenarrabile odissea durata sei settimane. Il governo è in bancarotta e i 69 atleti e atlete che gareggeranno sono costretti a imbarcare a bordo della nave Itaquicê migliaia e migliaia di confezioni di caffè - un carico da 25 tonnellate - per venderle lungo la rotta per la California e finanziare così il viaggio. 

Ma gli affari non vanno a gonfie vele. Anzi: quando arrivano al Canale di Panama, i brasiliani non hanno soldi neppure per pagare il pedaggio. E a nulla vale l’ingenuo stratagemma di tirar fuori i cannoni per spacciare l’Itaquicê come imbarcazione militare e avere così libero accesso nelle acque centramericane. Il capitano della nave avvisa via radio il Banco do Brasil e dopo qualche giorno arriva un quantitativo di denaro sufficiente per giungere a destinazione.

Quando attraccano nel porto di Los Angeles, però, gli sventurati viaggiatori hanno racimolato appena 24 dollari. E il dipartimento d’immigrazione chiede una gabella di un dollaro per ciascun atleta a bordo dell’Itaquicê. I tentativi di arrivare alla cifra necessaria tramite il consolato brasiliano a San Francisco naufragano miseramente e così, sul ponte della nave, è il momento delle scelte: solo 24 atleti, quelli che possono ambire a una medaglia o a un buon piazzamento, scenderanno a terra e parteciparanno ai Giochi. Un terzo di questa fortunata delegazione è formata dai giocatori della nazionale di pallanuoto.


Nessuno di loro, però, salirà sul podio. E i pallanotisti faranno ancora peggio. Debuttano contro gli Stati Uniti e rimediano subito un pesante 6-1: i brasiliani sembrano giocare un altro sport, ignari delle modifiche al regolamento adottate negli anni addietro. Nulla, però, lascia presagire ciò che accadrà nell’incontro successivo contro la Germania campione in carica. 

In acqua il divario è abissale, i tedeschi al termine del primo tempo - l’attuale suddivisione in quattro quarti arriverà solamente nel 1960 - sono già in vantaggio per 4-1. L’arbitro è Béla Komjádi, commissario tecnico della nazionale ungherese e considerato uno dei migliori allenatori della sua epoca, che sanziona con qualcosa come una quarantina di falli il gioco aggressivo dei brasiliani. Che covano rabbia e risentimento mentre la partita prosegue. E così, dopo il fischio finale che sancisce la vittoria della Germania per 7-3, i sudamericani prendono immediatamente di mira l’illustre direttore di gara, capro espiatorio della sconfitta.

Dagli insulti e dalle urla si passa ben presto alle vie di fatto. Il portiere Luiz Henrique Da Silva, un pennellone alto quasi due metri, è tra i più inferociti e tutta la squadra esce dalla vasca per inseguire e aggredire Komjádi. Si rende necessario addirittura l’intervento della polizia per far desistere i brasiliani da portare a compimento l’insano proposito. “L’intera squadra venne fuori dall’acqua”, ricorderà anni dopo il giocatore americano Calvert Strong. “Lo circondarono, ci fu qualche dopo e 2-3 persone furono spinte in acqua. Divenne un caso sui giornali, ma in realtà non lo era”.

Il malcapitato direttore di gara, che morirà prematuramente di lì a qualche mese dopo aver regalato all’Ungheria il primo oro olimpico, lì per lì scherza sull’accaduto: “Mi sa che non conosco le regole brasiliane”, commenta strizzando l’occhio. Lo stesso occhio che, invece, la commissione tecnica del torneo deciderà di non chiudere sulla pessima condotta dei sudamericani, squalificati ed estromessi dal resto della competizione: non era mai accaduto prima. 

E quegli istanti di follia fanno ancor oggi del Brasile l’unica nazionale a ricevere una squalifica nella storia della pallanuoto olimpica. Un’onta che la squadra oggi allenata dal santone Ratko Rudić proverà a far dimenticare tra meno di un mese a Rio de Janeiro, a 32 anni di distanza dall’ultima apparizione. 

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