venerdì 18 novembre 2016

The Only Game in Town: sport a Las Vegas



Guardo un'intervista ad Andriy Shevchenko realizzata da Sky per la serie "I signori del calcio": l'ex centravanti del Milan siede in una stanza piuttosto soleggiata. Dietro la vetrata, alle sue spalle, s'intravedono senza eccessivi sforzi alcuni grattacieli: 'Sarà una metropoli americana', immagino. Le telecamere mostrano lo stesso Shevchenko intento a istruire alcuni bambini all'interno di uno stadio. Mistero dipanato: siamo a Las Vegas. 

Ecco, mi sorge un dubbio: ma lì esistono squadre professionistiche che partecipa ai campionati americani? Ci penso su: mentalmente scorro l'elenco delle franchigie del baseball, della pallacanestro, del football americano. Persino del calcio e dell'hockey su ghiaccio. Macché, nulla. I miei sospetti avevano un fondo di verità: Las Vegas è l'unica grande città degli Stati Uniti - è al trentesimo posto per numero di abitanti - a non essere rappresentata in nessuna delle major league americane. 

Anzi no: poche settimane dopo ecco l'annuncio che dalla stagione 2017-2018 la "città del peccato" avrà una propria squadra nella NHL, il principale campionato di hockey su ghiaccio. Il nome - la scelta dovrebbe ricadere su Desert Knights, Silver Knights o Golden Knights - sarà rivelato il prossimo 22 novembre. Quale miglior occasione per indagare sul rapporto tra il paradiso delle slot machine e lo sport professionistico...


Creare dal nulla una squadra di hockey su ghiaccio in una metropoli edificata nel bel mezzo di un deserto non è una contraddizione in termini, un ossimoro. Tanto più che in questa città sono accatastati lungo lo stesso stradone la Statua della Libertà, il campanile di San Marco, la Torre Eiffel e una piramide egizia, con tanto di fascio di luce azzurra a squarciare le tenebre.

Sì, Las Vegas sarà segnata sull'atlante delle più importanti leghe degli sport di squadra dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto e dopo aver vinto parecchie reticenze. Un "evento inimmaginabile fino a poco tempo fa", come ha scritto il Legal Sports Report.

Un po' di storia

La prima franchigia de "I prati" - questo il significato del nome con cui la zona, lussureggiante e desertica allo stesso tempo, fu battezzata da un gruppo di avventurieri messicani nel 1829 - risale addirittura all'immediato dopoguerra. Non è una mera casualità: quel periodo coincide con la definitiva espansione di Las Vegas, assorta al rango di city propriamente detta soltanto da una quarantina d'anni.

Già nel 1931 lo stato del Nevada legalizza la pratica del gioco d'azzardo, ma le insegne a luci intermittenti e gli sfarzosi alberghi daranno lustro alla città soprattutto dopo la parentesi bellica.

Nel 1947 viene costituita la Sunset League, un campionato minore di baseball diffuso soprattutto tra gli Stati meridionali: non mancano all'appello i Las Vegas Wranglers. affiliati a una franchigia della MLB come i Boston Braves (oggi Atlanta).

Il primo triennio è un entusiasmante esempio concreto di climax: la squadra debutta con un terzo posto - in una partita c'è un giovane pitcher di nome Cameron Mitchell che farà strada come attore nel cinema ("Morte di un commesso viaggiatore") e nelle serie televisive ("Magnum P.I." e "La signora in giallo") -, l'anno seguente arriva alla finalissima poi persa contro Reno - che, curiosamente, contenderà a Las Vegas anche lo scettro di capitale americana dei casinò - e dodici mesi dopo vince finalmente il torneo.


È tuttavia un successo effimero: allo stadio i tifosi latitano, la rescissione dell'accordo con i Braves genera un deficit di 15mila dollari e la franchigia cola così a picco a braccetto con l'intero campionato nel 1952. A nulla vale il tentativo di resuscitare i Wranglers cinque anni dopo: arriva un deludente quarto posto, nonostante alcune future stelle della Major League come Bob Lee e Bob Veale, e pure l'epilogo definitivo.

Trascorre un intero decennio: il 1968 è non solo l'anno delle contestazioni giovanili ma pure quello della nascita dei Las Vegas Cowboys e della loro iscrizione alla Continental League di football americano. Dopo un esordio disastroso - appena una vittoria in dodici incontri - riescono a qualificarsi per i playoff a distanza di un anno: sarà il loro canto del cigno prima del trasferimento a Memphis.

Galassia di nomi (e buchi nell'acqua)

Gli anni Settanta segnano l'avvento del calcio negli Stati Uniti, o quantomeno l'intento di farlo attecchire sfruttando la celebrità di una sfilza di campioni europei e sudamericani, in vero non più di primo pelo. La "città del peccato", ormai definitivamente votata al gioco d'azzardo, abbraccia nel 1977 i San Diego Jaws che cambiano non solo quartier generale ma anche nome: nello stadio della University of Nevada, oggi intitolato a Sam Boyd, scendono così in campo i Las Vegas Quicksilvers.

La nutrita colonia portoghese formata dal futuro ct Humberto Coelho, dal nazionale Toni e da un crepuscolare Eusébio è condizione necessaria ma non sufficiente per rendere competitiva la squadra e trascinarla almeno ai playoff: dopo appena un anno l'avventura è già terminata.

Stessa sorte tocca alle squadre che ambiscono a portare in città, seppur nelle leghe minori, gli sport più amati dal popolo americano come la pallacanestro (i Silvers, attivi dal 1982 al 1983) e l'hockey su ghiaccio (i Thunder, due volte finalisti di conference nell'International Hockey League negli anni Novanta), ma anche quelli minori come l'hockey su pista (Flash e Coyotes) e il calcio indoor (gli Americans tra il 1984 e il 1985 e i Dustdevils dieci anni dopo con tanto di vittoria iridata). Tutti tentativi estemporanei: la più popolosa città del Nevada si ritrova con un coacervo di nomi più o meno fantasiosi, espressione di altrettante franchigie destinate a breve vita.

Oggigiorno, al di fuori delle rappresentative universitarie, esistono i Las Vegas 51s che giocano stabilmente nella Pacific Coast League di baseball categoria AAA (sigla che racchiude le squadre satellite delle franchigie della Major League), i Sin di football indoor, i Legends di calcio al coperto, i Warriors e Blackjacks di rugby e i Mobsters che militano nella quarta divisione calcistica nazionale.

Peccato, perché gli sportivi locali hanno gustato qualche assaggio dei grandi sport professionistici: nella stagione 1983-84 gli Utah Jazz di basket giocarono undici partite casalinghe al Thomas and Mack Center nel disperato tentativo di fare cassa e mettere ordine nelle loro disastrate finanze - su questo parquet Kareem Abdul Jabbar polverizzò il record di punti in carriera di Wilt Chamberlain -, mentre nel 1992 lo stesso impianto ospitò il primo round dei playoff tra Lakers e Trail Blazers, spostato dalla NBA per motivi di ordine pubblico dopo lo scoppio della Rivolta di Los Angeles. E altre, sporadiche partite si sono disputate qua.

Nel 1996, poi, gli Oakland Athletics di baseball dovettero ripiegare per alcune settimane sull'angusto Cashman Field in attesa che terminassero i lavori di ampliamento del Coliseum. Sempre in tema di mazze e palline, i San Diego Padres, i Seattle Mariners e i Los Angeles Dodgers si sono esibiti in questo piccolo stadio che nel 1993 ha fatto registrare il record di pubblico (15.025) per il derby tra i Cubs e i White Sox, le due squadre di Chicago.

Via da Las Vegas

Uno dei principali impedimenti all'arrivo di nuove franchigie, o alla rilocazione di alcune già esistenti, riguarda le scommesse sportive: sono legali solo in quattro Stati su 50, come prevede il Professional and Amateur Sports Protection Act del 1992, e le major league applicano regole ferree per preservare la regolarità delle rispettive leghe. I tesserati non possono fare puntate su incontri del loro campionato, tanto per dirne una. E la NBA accettò di portare qui lo spettacolo dell'All Star Game nel 2007 - era la prima volta che l'evento toccava una città priva di una sua squadra - a patto che nello stato del Nevada fossero bandite le scommesse sull'esito della partita.

La NFL si è spesso dimostrata la più rigida in tema di gambling: da anni rifiuta qualsiasi pubblicità su Las Vegas da trasmettere durante il Super Bowl, rinunciando a qualcosa come cinque (5!) milioni di dollari nel caso di spot da mezzo minuto, e minaccia azioni legali contro gli alberghi che sfruttano il richiamo mediatico della finale del campionato per organizzare eventi mondani - anche se, ricorda Forbes, nell'ultimo anno è stato stimato un giro di scommesse da 4,2 miliardi di dollari di cui il 97% provienente dal mercato clandestino.

Perplessità ha destato anche l'effettiva ampiezza del bacino d'utenza: a Las Vegas vivono poco meno di 600mila abitanti - che diventano però quasi due milioni tenendo conto dell'intera area metropolitana -, molti dei quali impiegati nei casinò e negli alberghi in orario serale o nei fine settimana, ovverosia quando va in scena la maggior parte delle partite di baseball, pallacanestro o football. E l'hockey su ghiaccio non è nemmeno così popolare a queste latitudini: si contano non più di 400 praticanti tra i giovani nell'intera area metropolitana e in tutta la valle esistono appena tre piste di pattinaggio.

Secondo Sports Illustrated, la franchigia finirebbe per diventare un'attrattiva per i turisti - le stime parlano di 42 milioni di visitatori nel 2015 -, alternativa ai concerti o agli spettacoli nei gentlemen's club, con il serio rischio per i sostenitori della nascitura squadra di trovarsi in netta minoranza rispetto a quelli ospiti o agli spettatori neutrali.

La celebre rivista si è poi soffermata su un curioso dato: le franchigie di città dal clima rigido come Calgary, Edmonton e Montreal attraggono frotte di tifosi indipendentemente dai risultati conseguiti mentre, ad esempio, squadre della California o della Florida hanno raggiunto i playoff giocando in palazzetti semivuoti.

L'assenza di impianti di gioco adeguati è infine un altro handicap di Las Vegas: la modesta capienza del Cashman Field (9.334 posti) e le difficoltà nel reperire fondi o convincere l'amministrazione locale a erigere un nuovo stadio del baseball sono stati determinanti nel far saltare le trattative per portare in città i Montreal Expos prima e i Florida (oggi Miami) Marlins successivamente.

La tendenza potrebbe tuttavia fare un'inversione con la T-Mobile Arena inaugurata ad aprile: è un gioiellino da 20mila posti voluto e finanziato dalla Anschutz Entertainament Group - tra i cofondatori della Major League Soccer nel 1996, amministra impianti come lo Staples Center in California o la O2 Arena di Londra e possiede un pacchetto di azioni dei Los Angeles Lakers - e dalla MGM Resorts International, colosso mondiale che controlla undici dei più prestigiosi hotel-casinò dislocati sulla Strip.

L'arena si trova proprio sulla celebre strada dell'intrattenimento notturno, tra il New York-New York e il Monte Carlo, di proprietà - guarda caso! - della MGM stessa che per il suo impianto nuovo di zecca ha stimato un indotto di oltre 900 milioni di dollari per l'economia locale.

Scommettiamo che...?

L'arena, finora, ha ospitato concerti, qualche amichevole di lusso - vedi Argentina-Stati Uniti di basket in vista dei Giochi di Rio - ed esibizioni di wrestling. Ma dal prossimo anno sarà, soprattutto, la casa della squadra che porta a 31 il numero di partecipanti alla NHL, prima lega a vincere dubbi e remore sull'eventualità di una expansion team nella capitale del gioco d'azzardo .- oltretutto, l'80% delle franchigie di quel campionato si trova in località che distano non più di un'ora di macchina da un casinò.

Dietro questa avventura destinata (forse) a far storia si celano Bill Foley, magnate texano attivo nel campo dei servizi finanziari che ha in mano l'85% delle quote - o meglio: è il consorzio Black Knight Sports and Entertainment, di cui Foley è il principale investitore, a possederle -, e i Maloof, una famiglia di Las Vegas di origini libanesi, già azionista dei Sacramento Kings e fondatrice del Palms Casino Resort. Gente che fa sul serio, perché la NHL è un campionato chiuso, senza promozioni né retrocessioni: l'unica condizione per partecipare, si fa per dire, è avere un'ampia disponibilità economica. Dollari, tanti dollari. Una montagna di dollari.

"La decisione della NHL è l'ultimo segnale in ordine di tempo che le leghe professionistiche sono sempre più a loro agio con le scommesse sportive legali e regolamentate", ha commentato Geoff Freeman, amministratore delegato della American Gaming Association. "Nulla minaccia l'integrità dello sport più del mercato delle scommesse clandestine, dove gli americani hanno speso oltre 150 miliardi di dollari nell'ultimo anno".

Una posizione, questa, condivisa da Forbes che sottolinea come la revoca del divieto di scommettere sulle squadre del Nevada (universitarie incluse) in vigore per oltre quaranta anni fino al 2001 non abbia sortito conseguenze negative. E la tanto inflessibile NFL è stata punzecchiata in proposito, giacché strizza comunque l'occhio a un possibile trasferimento degli Oakland Raiders proprio nella "città del peccato": la Las Vegas Sands, proprietaria di resort quali Palazzo e Venetian e del Marina Bay a Singapore, vorrebbe costruire l'eventuale casa - un futuristico stadio da 65mila posti che verrebbe a costare quasi 2 miliardi di dollari: lo stato del Nevada si è peraltro già espresso favorevolmente sulla parziale copertura delle spese con 750 milioni di dollari di fondi pubblici.



Se il commissioner della NFL Roger Goodell ha detto di non aver ancora chiuso definitivamente le porte a Las Vegas, quello della NBA Adam Silver ha mostrato un'apertura ancor maggiore sul fronte delle scommesse sportive, dichiarando che "l'integrità di un campionato può essere salvaguardata laddove le puntate sono legali e regolamentate". E Rob Manfred, il loro omologo della MLB, lo scorso giugno ha definito Las Vegas una "alternativa fattibile" per un'eventuale espansione del numero di squadre del massimo campionato di baseball.

Adesso gli occhi saranno, comprensibilmente, tutti sui "cavalieri e qualcos'altro" che porteranno uno sport invernale nella calura del deserto del Mojave: se l'esperimento dovesse funzionare le tre grandi leghe potrebbero anche passare dalle parole ai fatti. Con la conseguenza che l'hockey su ghiaccio non sarebbe più, per citare il titolo di una vecchia pellicola ambientata a Las Vegas, the only game in town.

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